HIV: nuova strategia di cura con la combinazione dolutegravir-lamivudin. Le prospettive della duplice terapia al 12° Congresso Nazionale ICAR
Oggi i bisogni insoddisfatti delle persone che vivono con l’HIV possono, nella maggior parte dei casi essere soddisfatti, anche grazie ai grandi progressi della terapia e tra questi le nuove duplici terapie come quella che combina dolutegravir alla lamivudina. Se ne è parlato nel corso di un simposio organizzato durante il 12° Congresso Nazionale ICAR “Italian Conference on AIDS and Antiviral Research”.
Si tratta del superamento dello schema classico che richiedeva necessariamente tre farmaci per ottenere un effetto antivirale duraturo e che affonda le radici nel 1997. Oltre un ventennio fa, infatti, è stato dimostrato che la tripla combinazione ha una performance migliore rispetto alla monoterapia o ad altre combinazioni.
Per anni dunque è stata seguita questa strategia. Nel 2008 è però comparso il primo di una nuova famiglia di composti: l’inibitore dell’integrasi dell’HIV. Gli studi sui regimi terapeutici contenenti questo principio attivo hanno negli anni dimostrato la validità di questa nuova possibilità. Si è quindi voluto valutare la possibilità di limitarsi a due farmaci.
Non tutti i doppi regimi possono però garantire efficacia, perché il virus dell’HIV è in grado di “sfuggire” in caso di protezione inadeguata del trattamento antiretrovirale. Quindi la terapia a due farmaci è idonea solo con molecole adeguatamente potenti e in grado di controllare la replicazione, anche se usati in uno schema a due e non a tre principi attivi.
Viste le loro caratteristiche – tra cui il meccanismo d’azione, la farmacocinetica e la bassa interazione farmacologica – sono stati selezionati a questo proposito due principi attivi: dolutegravir, inibitore dell’integrasi dell’HIV, e lamivudina.
Si tratta di un regime antiretrovirale, da assumere una volta al giorno, disponibile in Italia da maggio 2020 per il trattamento dell’infezione HIV-1 in adulti e adolescenti di età superiore ai 12 anni con peso corporeo di almeno 40 Kg, con nessuna resistenza nota o sospetta a questi principi attivi.
Nel corso del simposio è stata analizzata la “robustezza” dei dati scientifici su cui si basa il razionale alla base dell’uso di questa combinazione. Questa, per una porzione importante dei pazienti, se non per tutti, pare solida. Inoltre, sono stati valutati i risultati di un ampio sondaggio, che ha sottolineato come la somministrazione di un numero inferiore di farmaci paia particolarmente gradita ai pazienti.
La “robustezza” delle evidenze
I clinici concordano sul fatto che il termine “robustezza”, applicato alla terapia con farmaci antiretrovirali (ART) in generale o in particolare a questa combinazione, ha un molteplice significato:
efficacia a lungo termine,
tollerabilità a breve e lungo termine
studi clinici randomizzati confermati da evidenza real world
alta barriera alla resistenza
buona aderenza
applicabilità a un ampio range di situazioni
basso potenziale per interazioni tra farmaci.
Con robustezza si intente quindi la capacità di superare test rigorosi su questi punti. Gli studi presentati durante il simposio mirano proprio a sottolineare come la combinazione di dolutegravir e lamivudina soddisfi la maggior parte, se non tutti, questi parametri.
I dati della letteratura: la combinazione nei pazienti naïve
L’uso della combinazione di dolutegravir e lamivudina è stato supportato da due grandi studi globali, GEMINI 1 e 2 (che hanno fornito dati a tre anni sui pazienti naïve alle terapie antiretrovirali), dallo studio STAT e dallo studio TANGO (che ha dato informazioni a due anni sui pazienti virologicamente soppressi).
La disponibilità in Italia di questa combinazione nasce dai risultati a 96 settimane degli studi GEMINI 1 e 2, che ne hanno valutato l’efficacia e la sicurezza rispetto al trattamento standard a tre farmaci nei pazienti mai trattati in precedenza, anche con carica virale di oltre 100.000 copie/mL. Sul fronte della pratica clinica questo aspetto è cruciale, in quanto si potrà fin dall’inizio del trattamento utilizzare il minor numero di farmaci possibile, utili a garantire l’efficacia virologica e il benessere del paziente, aumentando la sicurezza e la tollerabilità.
I due studi di fase III randomizzati GEMINI 1 e 2 hanno coinvolto oltre 700 pazienti con infezione da HIV-1 in ognuno dei due bracci.
In questi studi, dolutegravir e lamivudina hanno dimostrato un’efficacia non inferiore in confronto al regime a tre farmaci di dolutegravir e due inibitori della transcriptasi inversa (NRTIs), tenofovir disoproxil fumarato/emtricitabina (TDF/FTC), sulla scorta dei valori di RNA plasmatico HIV-1 <50 copie per millilitro (c/mL), misura standard di controllo dell’HIV, alla 48esima settimana.
A tre anni di follow up la risposta si è mantenuta molto elevata in ogni braccio e si conferma la non-inferiorità.
In entrambi i bracci di trattamento non si sono osservati problemi di fallimento virologico né di sviluppo di resistenza al trattamento.
La terapia di combinazione con i due farmaci ha mostrato anche un’elevata barriera alla resistenza. Per comprenderne il motivo, sottolineano gli specialisti durante il simposio, va ricordato che quest’ultima dipende da una combinazione di diversi parametri: quelli virologici (dipendente da potenza e genetica), quelli farmacocinetici e quelli correlati al tempo di legame al target. La combinazione dolutegravir più lamivudina possiede tutti questi requisiti, ecco perché i pazienti che non rispondono a questa terapia non sviluppano, in genere, resistenza.
Per quanto riguarda l’utilizzo di questa combinazione nei pazienti naïve alla terapia antiretrovirale e pretrattati, sono disponibili anche risultati dello studio URBAN, svolto in real-world, che hanno confermato risultati positivi per questo trattamento.
Le principali linee guida, dopo aver raccolto dagli studi le informazioni riguardanti la combinazione dolutegravir più lamivudina, hanno stabilito che questo è uno dei regimi raccomandati per la terapia antiretrovirale dei pazienti naïve.
La combinazione nei pazienti virologicamente soppressi
Le persone che convivono con l’HIV possono tenere sotto controllo il proprio virus anche con un regime a 2 farmaci: l’uso della terapia con la combinazione dolutegravir più lamivudina ha dato risultati positivi anche nei pazienti virologicamente soppressi.
Al giorno d’oggi, fortunatamente, oltre il 90% dei pazienti ha una carica virale non rilevabile. Anche per loro è però possibile ottimizzare la terapia antiretrovirale in diversi modi, uno di questi è lo switch dalla tripla terapia a quella doppia. È quanto è stato esplorato nello studio di fase III TANGO, che ha visto arruolati oltre 350 pazienti per braccio e ha dimostrato la non inferiorità tra le due strategie terapeutiche.
I risultati di TANGO a 96 settimane dimostrano il mantenimento del profilo di efficacia e resistenza. Dopo circa due anni di studio, infatti, si osserva che il regime a 2 farmaci (2DR) costituito da dolutegravir/lamivudina ha continuato a mostrare un’efficacia non inferiore rispetto alla continuazione di un regime a base di tenofovir alafenamide fumarato (TAF) di almeno tre farmaci in adulti virologicamente soppressi con HIV-1 che non hanno in precedenza sperimentato fallimento virologico.
I dati dello studio hanno rivelato che nessun partecipante trattato con dolutegravir più lamivudina (0/369, 0%) e tre partecipanti (3/372, <1%) trattati con il regime basato su TAF sono andati incontro a fallimento virologico (definito dal protocollo). Nessun partecipante ha sviluppato mutazioni di resistenza al fallimento.
Per quanto riguarda la tolleranza, va ricordato che ogni volta che si passa da un regime a un altro c’è un lieve aumento dei rischi di effetti collaterali, nel caso in oggetto, però, questo si è verificato solo nel momento iniziale del cambiamento di terapia, successivamente (settimane 48 e 96) il tasso di effetti collaterali è stato identico in entrambi i bracci. Il passaggio dalla tripla alla doppia terapia ha invece avuto come vantaggio il miglioramento del profilo lipidico, dei livelli di insulino-resistenza e della prevalenza della sindrome metabolica”.
La doppia combinazione e i bisogni dei pazienti
Nell’area dell’HIV, nonostante i grandi progressi della terapia degli ultimi anni, continuano ad esserci bisogni insoddisfatti.
Anche grazie all’innovazione terapeutica, l’aspettativa di vita della maggior parte delle persone con HIV è oggi confrontabile a quella della popolazione generale. Avere a disposizione, dunque, una terapia antiretrovirale che ha tra i suoi razionali più importanti, oltre quelli viro-immunologici, anche quello di essere un valido contributo al miglioramento della qualità della vita, è davvero cruciale nel percorso di lungo termine.
Quando si parla di HIV, si cita in genere l’importanza dei tre “90”, cioè che il 90% delle infezioni venga diagnosticata, che tra le persone positive il 90% venga trattata correttamente e che il 90% presenti una soppressione virologica. Si dovrebbe però tenere presente come obiettivo anche di un quarto “90”: il 90% delle persone in cura per questa infezione dovrebbe avere una buona qualità di vita. Questo significa che la soppressione virale non dovrebbe essere l’unico marker con cui si valuta il successo della terapia.
È dunque importante conoscere cosa ritengano importante le persone che convivono con questa infezione. Un recente sondaggio ha analizzato questo aspetto in quasi 2.400 soggetti sieropositivi in 25 nazioni, tra cui l’Italia. Per il 60% degli intervistati era importante ridurre l’impatto a lungo termine delle terapie e altrettanti sentivano la necessità di migliorarle, per esempio sotto l’aspetto degli effetti collaterali. Il 72%, inoltre, avrebbe volentieri preso meno pillole se queste fossero comunque state in grado di mantenere la carica virale bassa.
La ricerca deve dunque mirare a soddisfare queste richieste.
Attualmente i pazienti sono sottoposti alle cure per HIV per un numero superiore di anni rispetto al passato, quindi devono fare il conto con le eventuali tossicità a lungo termine. Su questo pesa anche il fatto che alcuni effetti collaterali delle terapie vengano identificati anche molti anni dopo la loro messa in commercio. Sarebbe quindi opportuno che le persone non prendano maggiori dosaggi o più farmaci di quando necessario.
La scelta del regime farmaceutico dovrebbe tener conto anche dell’età e del genere.
Va sottolineato che i pazienti HIV-positivi hanno a disposizione meno anni liberi da comorbidità: una crescente percentuale ha infatti più di 50 anni e invecchiando, per molti, cresce il rischio di avere più patologie e quindi il dover prendere più terapie diventa una preoccupazione crescente.
Per quanto riguarda le donne, inoltre, va ricordato che, probabilmente, nel corso della loro vita dovranno essere sottoposte a terapia ormonale, per esempio contraccettiva o sostitutiva per la menopausa. Invecchiamento e genere femminile comportano dunque la possibile necessità di dover assumere altre pillole e questo diventa particolarmente sgradito. In generale, i pazienti preferiscono regimi che comportano un’assunzione di un numero inferiore di medicine.
Fino a pochi anni fa era impensabile avere a disposizione una terapia completa per l’HIV con due soli farmaci che non imponesse cautele per possibili danni d’organo, fattore chiave da considerare quando si invecchia e si assumono terapie per le patologie tipiche di questa situazione. I nuovi risultati danno un’opzione terapeutica in più.