Covid: studio italiano di bioinformatica, pubblicato sulla rivista Cell Systems, ha spiegato perché alcuni pazienti si ammalano in maniera più grave
Se c’è un aspetto della malattia provocata dal virus SARS-CoV-2 che ha completamente spiazzato gli esperti, e anche i non addetti ai lavori, è relativo al fatto che molti pazienti si ammalano in forma grave ed altri, invece, sembrano non subire i colpi della patologia. Da una parte si sono viste terapie intensive sature di pazienti attaccati ai ventilatori, dall’altra molte persone chiuse in casa senza sintomi apparenti. Varie ipotesi sono state poste al riguardo: il fatto che la malattia, in alcuni casi, progredisca fino alle basse vie respiratorie, innescando una grave polmonite interstiziale; la diversa risposta immunitaria; le varie comorbilità che subentrano. Tuttavia, all’interrogativo sembra ancora mancare una risposta univoca.
Un brillante tentativo di fare chiarezza è giunto dallo studio di due ricercatori italiani, la prof.ssa Caterina La Porta, del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università di Milano, e il prof. Stefano Zapperi, del Dipartimento di Fisica dello stesso Ateneo. Il loro lavoro, pubblicato sulle pagine della rivista Cell Systems potrebbe contribuire alla comprensione del perché il COVID-19 sia una malattia mortale in alcune persone e poco più di un leggero raffreddore in altre.
L’elemento chiave alla base dello studio italiano è il sistema dell’antigene leucocitario umano (HLA). “Quando parliamo di virus, uno dei punti cruciali dell’immunologia è la sua presentazione all’organismo, che chiama in causa il sistema HLA”, spiega la prof.ssa La Porta. “Infatti, le proteine HLA sono espresse da tutte le cellule dotate di un nucleo e hanno lo scopo di presentare ai linfociti T (o cellule T) i frammenti peptidici prodotti dall’attività del proteasoma, cioè di quel complesso che si occupa della degradazione dei peptidi”. Per poter essere attivati, infatti, i linfociti T hanno bisogno di riconoscere un antigene estraneo espresso sulla superficie di alcune cellule, dette APC (Antigen-Presenting Cell). Una volta che una cellula APC ha inglobato una cellula estranea per l’organismo, riesce a esporre sulla sua superficie dei frammenti peptidici prodotti dalla degradazione degli antigeni della stessa cellula estranea, segnalando così ai linfociti T la presenza di un agente patogeno all’interno dell’organismo.
Il processo di riconoscimento da parte delle cellule T di questi ‘frammenti estranei’ dipende dalla presenza di un complesso di geni che nell’essere umano prendono il nome di HLA. “Il sistema HLA è polimorfico, cioè presente all’interno della popolazione umana in molte varianti, o alleli (ad esempio HLA-A, -B e -C). Inoltre, i geni dell’HLA si trovano nella regione del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I, che gioca un ruolo determinante nell’aiutare il sistema immunitario a riconoscere cioè che è estraneo all’organismo”, riprende La Porta. “Ciò che noi abbiamo voluto indagare con il nostro lavoro è stata la risposta immunitaria al virus SARS-CoV-2 in rapporto ai vari alleli di HLA, cioè se alcuni alleli fossero in grado di legare meglio i peptidi del virus e quindi di attivare i linfociti T. Questo ci ha permesso di classificare l’aggressività della malattia COVID-19 in base alla compatibilità tra i peptidi del virus e i diversi tipi di HLA”.
I ricercatori hanno simulato al computer il sistema per la degradazione dei peptidi, e quindi del SARS-CoV-2, a partire dalle proteine più importanti del virus, come la proteina “spike”; successivamente, tramite potenti sistemi di analisi dei dati (le cosiddette reti neurali artificiali), hanno identificato i peptidi che si legavano con maggiore o minore affinità alla regione dell’MHC di classe I. “Abbiamo anche trasversalmente esteso il confronto alle proteine del virus SARS-CoV-1 e a quelle del virus del raffreddore, creando una sorta di mappa universale e scoprendo che tutti e tre i Coronavirus fornivano risultati molto simili”, sottolinea La Porta. “Ci sono peptidi del virus che mostrano una forte affinità con certi alleli di HLA e altri, invece, che hanno una debole affinità”. Successivamente, i ricercatori hanno studiato la capacità di questi complessi MHC-peptide sui linfociti T, dimostrando che i peptidi che legavano molto bene uno specifico allele HLA, attivavano bene anche il linfocita T.
Gli studiosi hanno poi guardato alla distribuzione degli alleli HLA nella popolazione umana, confermando che certe popolazioni, come quelle asiatiche, hanno minore affinità per il peptide rispetto a quello caucasiche. “In pratica, abbiamo gettato le basi per organizzare un sistema semplice e potente in grado di distinguere gli individui in base al rischio di andare incontro a una forma aggressiva o meno di COVID-19”, conclude la prof.ssa La Porta. “La tipizzazione dell’HLA è un esame che si esegue di routine in persone che si sottopongono a trapianto d’organo. Perciò, con un semplice esame del sangue è possibile ricavare il proprio HLA, che è anche specifico per ogni popolazione, e da qui si può capire se quel particolare HLA è posizionato nella regione ad alta o bassa affinità per i peptidi del virus SARS-CoV-2”.
La risposta al perché della diversa aggressività della malattia COVID-19 può essere dunque scritta nei nostri geni e, specie per le popolazioni più fragili, come i malati rari, potrebbe rivelarsi di grande aiuto, permettendo un miglior controllo della popolazione a rischio. Che gli studi di genetica rappresentino la strada maestra per fare luce su questa patologia lo aveva dimostrato anche la ricerca apparsa sul New England Journal of Medicine, alla quale aveva partecipato anche il gruppo di ricerca italiano guidato dal prof. Paolo Bonfanti, del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. L’indagine aveva stabilito una correlazione tra il gruppo sanguigno e un fenotipo più grave di COVID-19, mettendo in luce come negli individui con gruppo sanguigno 0 il rischio di sviluppare un’infezione clinicamente grave fosse più basso, mentre in quelli con gruppo sanguigno A fosse più elevato. Le conclusioni dello studio invitavano ad un maggiore approfondimento, che può trovare un’utile sponda anche nelle ricerche svolte dalla prof.ssa La Porta e dal prof. Zapperi.