Il tema della web tax non riguarda solo una tematica di policy fiscale, ma ha veri e propri riflessi geopolitici: ecco quali sono
«Come noto le multinazionali del Web godono di una non più ammissibile omessa tassazione dei loro miliardari profitti. Ciò che, dopo anni di dibattiti è stato finalmente compreso, è che per affrontare fenomeni come quello della tassazione dell’economia digitale, occorre adottare una nuova prospettiva. Già all’Ecofin di Tallin del 21 settembre 2017, del resto, anche l’Europa aveva capito la ineluttabilità di trovare una soluzione operando, principalmente, in due direzioni: tassazione sul fatturato, e/o evoluzione del concetto di stabile organizzazione. Con, sullo sfondo, il tema dei Big Data».
Spiega così in una nota l’avv. Giovambattista Palumbo, Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche fiscali: «La stabile organizzazione, in particolare, costituisce la codificazione del principio per cui uno Stato può tassare gli utili di impresa solo qualora il non residente eserciti la propria attività in tale Stato mediante una sede fissa di affari. Ma di quale sede fissa hanno bisogno gli operatori del Web? E, però, la citata definizione di stabile organizzazione trova consacrazione sia nelle norme interne sia nelle convenzioni internazionali. E questo è stato, fino ad oggi, il principale ostacolo all’introduzione di una norma ad hoc che fermasse l’“emorragia fiscale”. Insomma, l’approccio al fisco del mondo digitale deve essere darwiniano. Nel senso che vi deve essere un’evoluzione giuridica al passo con quella tecnologica. Chi opera (e guadagna) nel nostro Paese deve sottostare alle leggi nazionali come tutti i normali cittadini. E lo deve fare in quanto soggetto allo Stato di diritto e non come “contributo” volontario alla propria comunità locale di riferimento (parole di Facebook).
Il 13 dicembre 2018 il Parlamento europeo, riunito in plenaria, ha del resto votato ed approvato due relazioni che chiedevano all’Europa di introdurre un sistema comune di tassazione per i servizi digitali. Il Parlamento europeo aveva in sostanza proposto alcune modifiche alle proposte già avanzate nel marzo 2018 dalla Commissione europea, aggiungendo all’elenco dei servizi che possono essere considerati entrate fiscali la fornitura di «contenuti su un’interfaccia digitale come video, audio, giochi o testi» – indipendentemente dal fatto che tali contenuti fossero di proprietà della società fornitrice o che questa ne avesse acquisito i diritti di distribuzione – e riducendo la soglia minima al di sopra della quale i redditi di una società sono soggetti a tassazione – qualsiasi società che generi entrate all’interno dell’Ue superiori a 40 milioni di euro durante l’esercizio finanziario, mentre nella proposta della Commissione europea l’importo era di 50 milioni di euro. Veniva, invece, mantenuta l’aliquota del 3%, sempre proposta dalla Commissione, con la prospettiva di passare al 5% dopo due anni dall’entrata in vigore delle nuove regole. L’obiettivo era quello di colmare il divario tra la tassazione dei ricavi digitali e quella dei ricavi tradizionali laddove, in media, le imprese digitali sono soggette a un’aliquota fiscale effettiva pari solo al 9,5%, rispetto al 23,2% per i modelli d’impresa tradizionali. Soltanto determinate entità dovrebbero comunque essere considerate soggetti passivi, dovendosi, nelle proposte richiamate, considerare come tali le entità che soddisfano congiuntamente le seguenti condizioni:
- l’importo totale dei ricavi (a livello mondiale) dichiarati dall’entità per l’ultimo esercizio finanziario completo per il quale è disponibile un bilancio consolidato supera i 750.000.000 di euro;
- l’importo totale dei ricavi imponibili ottenuti dall’entità nell’Unione durante tale esercizio finanziario supera i 40.000.000 di euro.
La strada della tassazione di tali tipi di attività sta comunque per essere intrapresa, o è già stata intrapresa, singolarmente, da vari Paesi. Con la Digital service Tax inglese, per esempio, si mira ad intercettare i proventi derivanti da operazioni tramite piattaforme telematiche e social network, Big Data, on line marketplace eccetera. La Digital service Tax inglese è quindi specificamente mirata su determinate digital business activities, i cui proventi ammontino, globalmente, a più di 500 milioni di sterline l’anno, di cui almeno 25 milioni derivino da transazioni connesse alla partecipazione di un cittadino residente sul territorio britannico e con soglia di esenzione fino ai primi 25 milioni di sterline. Anche la Francia ha predisposto una sua web tax, operativa a partire dal 2021. Il tributo è stato già denominato “GAFA tax” (dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Amazon) e il Ministro delle Finanze francese ha riferito di puntare a far entrare nelle casse dello Stato almeno 500 milioni di euro l’anno. Anche in questo caso saranno i ricavi generati dalla pubblicità, dalle piattaforme e dalla vendita di dati personali.
E l’Italia? L’Italia, a dire il vero, era stata la prima a muoversi su tale terreno, approvando già nel corso della Legge di Bilancio 2018, una sua web tax, che però è poi rimasta solo sulla carta per mancanza di decreti attuativi. Con la Legge di Bilancio 2019 è stata poi avanzata una nuova soluzione – che si sarebbe dovuta concretizzare entro il 30 aprile 2019, ma che poi non ha visto la luce. La Legge di Bilancio 2020 (legge n.160/2019) ha, infine, modificato ulteriormente l’imposta italiana sui servizi digitali. Rispetto alla versione precedente, con la nuova disposizione sono stati precisati alcuni servizi digitali non soggetti a tassazione, meglio individuate alcune caratteristiche relative alla realizzazione della fattispecie impositiva e dei ricavi soggetti a tassazione, introdotti nuovi obblighi contabili. La web tax è, del resto, già entrata in vigore dal 01/01/2020 (anche se ancora si attendono le modalità applicative). La stessa web tax nazionale sarà però abolita al momento in cui entreranno in vigore eventuali accordi in sede internazionale in materia di tassazione dell’economia digitale.
L’imposta va a colpire i ricavi ottenuti tramite la prestazione di specifici servizi resi tramite interfaccia digitale, e precisamente: la veicolazione di pubblicità mirata agli utenti dell’interfaccia; la messa a disposizione di interfaccia digitale multilaterale che consenta agli utenti di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni e servizi; la trasmissione di dati raccolti da utenti, generatisi tramite l’utilizzo dell’interfaccia digitale. L’imposta si applicherà allorché l’utente di un servizio tassabile venga localizzato – attraverso l’indirizzo IP o altro sistema di geolocalizzazione – nel territorio dello Stato.
In conclusione, alcune, brevi, riflessioni. È chiaro che la questione non riguarda solo una tematica di policy fiscale, ma ha veri e propri riflessi geopolitici. Gli Stati Uniti sia a livello di governo sia delle principali società multinazionali americane, hanno costantemente rappresentato la propria contrarietà all’introduzione di una misura unilaterale da parte dei vari Stati europei sulla tassazione delle imprese digitali. Gli USA si sono fortemente opposti all’ipotesi di giustificare qualsiasi misura unilaterale.
Il linguaggio adottato nell’Interim Report 2018 della Task Force on Digital Economy riflette ampiamente la posizione americana («[…] there is no consensus on either the merit or need for interim measures with a number of countries opposed to such measures on the basis that they give rise to risks and adverse consequences irrespective of their design»), anche se il Report identifica altresì le caratteristiche fondamentali che gli Stati dovrebbero tenere in considerazione ove intendano comunque procedere all’adozione di misure ad interim. Anche la American Chamber of Commerce in Italy ha da sempre manifestato la propria posizione contraria all’introduzione di tale imposta, non soltanto perché solo una soluzione condivisa a livello internazionale potrebbe (a suo avviso) risultare idonea ad affrontare le sfide poste dalla digitalizzazione dell’economia, ma anche perché: l’imposta colpirebbe i ricavi lordi anziché i profitti; sussisterebbero perplessità sotto il profilo della compatibilità con le direttive IVA ed i trattati contro le doppie imposizioni; potrebbe essere considerata un dazio nei confronti delle imprese statunitensi.
La linea americana è, dunque, quella di soprassedere all’applicazione di una web tax fino a quando non sia raggiunto un accordo globale a livello OCSE. E, se questo non avvenisse (cosa molto probabile, quanto meno nel breve/medio termine), sono state (neanche velatamente) minacciate ritorsioni in termini di politica doganale. Chissà se ora, con il cambio di governo della Casa bianca, tale linea cambierà. Certamente, però, non cambierà l’opposizione delle multinazionali. Il 2021, forse complice anche la “fame” di risorse da Covid, potrebbe comunque essere finalmente l’anno della svolta».