Sindrome di Prader-Willi: serve multidisciplinarietà


Sindrome di Prader-Willi: uno studio pubblicato sul BMJ Open mette in luce il bisogno di supporto multidisciplinare alla cura

Sindrome di Prader-Willi: uno studio pubblicato sul BMJ Open mette in luce il bisogno di supporto multidisciplinare alla cura

Una diagnosi che stravolge la vita di tutta una famiglia, riscrivendo le abitudini fuori e dentro le mura di casa. Genitori costretti a cambiare lavoro, se non addirittura a lasciarlo; nuclei familiari isolati, a volte obbligati a pagare di tasca propria per interventi fondamentali per la qualità di vita dei loro figli. Della malattia e della difficoltà quotidiane di chi convive con una diagnosi di sindrome di Prader-Willi si parla poco, soprattutto in questi mesi di emergenza sanitaria.

Ma sono proprio i più fragili a soffrire di più, e non si può lasciarli indietro, come dimostra il primo studio di medicina narrativa mai effettuato su questa patologia condotto da Fondazione ISTUD e promosso da Sandoz, PRAXIS: Prader-Willi Excellence in Care with Story Taking, pubblicato su BMJ Open. Una fotografia che mette in luce le difficoltà ma indica anche le possibili soluzioni: un percorso di cura gestito da un’équipe multidisciplinare e l’organizzazione di attività sportive e sociali.

Una malattia eterogenea
La sindrome di Prader-Willi è una malattia genetica rara che colpisce circa 1 bambino ogni 10-30 mila nascite. È una malattia che si manifesta in maniera diversa da bambino a bambino, ma in cui è possibile identificare dei tratti comuni, spiega Graziano Grugni dell’Istituto Auxologico Italiano, Ospedale di Piancavallo (VB): “Le alterazioni genetiche alla base della sindrome causano inizialmente ipotonia muscolare con difficoltà nell’allattamento e scarsa crescita, a cui fa seguito lo sviluppo di iperfagia, da mancanza di sazietà, e conseguente obesità precoce, difetti ormonali multipli, deficit cognitivo, problemi comportamentali, psicosi, in alcuni casi, mani e piedi piccoli e segni dismorfici del viso”. Grazie alla diagnosi precoce, al supporto di un team multidisciplinare e all’uso dell’ormone della crescita, la storia di questi pazienti è cambiata. “Oggi i bambini raggiungono una statura normale, non hanno segni dismorfici, e non sono necessariamente obesi”, aggiunge Grugni.

Ma non tutti riescono a ricevere la diagnosi nel primo anno di vita, specialmente se la famiglia vive lontano dai centri specializzati. “È fondamentale che la diagnosi sia quanto più precoce possibile, non solo per avviare il trattamento con l’ormone della crescita, ma anche per sensibilizzare e far prendere consapevolezza alle famiglie del percorso di cura che li attende”, spiega Letizia Ragusa, dell’OASI Santa Maria Santissima di Troina, a capo dello studio PRAXIS. “Perché se è vero che un ruolo centrale lo ha il team multidisciplinare che si occupa dei ragazzi, molto dipende dai genitori. E prima si affronta la malattia, maggiori sono i risultati che possiamo ottenere”.

Una terapia complessa
“Sandoz è da sempre al fianco delle persone con PWS e delle loro famiglie – commenta Paolo Fedeli, Direttore Medico di Sandoz Italia – e siamo pienamente coscienti che migliorare la qualità di vita delle persone che vivono tutti i giorni la malattia sia una sfida che non può prescindere dall’ascolto dei bisogni di queste persone”. La terapia con l’ormone della crescita è sì fondamentale ma da sola non basta. La gestione delle persone con PWS deve necessariamente comprendere anche logopedia, psicomotricità, supporto psicologico e a volte psichiatrico. Un punto spesso dolente, come emerge anche dallo studio PRAXIS: per ottenere le visite specialistiche necessarie, capita che le famiglie siano costrette a rivolgersi a centri privati, a muoversi lontano da casa, con un peso economico che si somma a quello emotivo. A questo si aggiunge lo stigma nei confronti della malattia: parlarne è ancora oggi tabù, specie all’infuori della famiglia, spiegano gli esperti che hanno condotto lo studio. Ascoltare le persone con PWS e i loro caregiver vuol dire anche capire che si tratta di persone con speciali capacità come le spiccate abilità visive e creative, che possono fare la differenza non solo nell’integrazione sociale di queste persone, ma anche nel trattamento stesso della malattia. “È importante impegnare i momenti liberi dei ragazzi con attività ludiche e ricreative, come la piscina, la musica, la pittura o le attività di rilassamento – ha aggiunto Ragusa – Le persone con PWS sono molto precise, tenerle impegnate può portarle ad avere grandi gratificazioni e allontanarli così dalla loro ossessione per il cibo”. La gestione dell’iperfagia rimane infatti ancora oggi una delle difficoltà principali da affrontare, come dimostrano anche i racconti delle persone con PW e dei loro familiari.

Il valore della narrazione
Ascoltare persone con PWS e caregiver consente di capire meglio le loro esigenze e disegnare nuove opzioni di cura: questo è l’obiettivo della medicina narrativa, che mira, insieme alla evidence-based medicine, a migliorare la gestione della malattia, promuovendo la qualità dell’assistenza e l’efficacia stessa degli interventi terapeutici.

“Il progetto PRAXIS è il primo in Italia che ha provato a fotografare il vissuto delle persone con PW e delle loro famiglie attraverso la medicina narrativa –  commenta Maria Giulia Marini, Innovation and Scientific Director della Fondazione Istud e Presidente di EUNAMES, EUropean NArrative MEdicine Society – e ci ha permesso di portare alla luce aspetti emotivi e sociali, da difficoltà di vita quotidiana a grande energia creativa e senso morale, che sono fondamentali per potenziare il dialogo tra pazienti e professionisti. Praxis ha permesso di identificare quali sono gli ostacoli e le risorse da considerare per offrire un percorso di cura ottimale a queste persone, e contenere lo stigma sociale”.

Ed è proprio questo il punto da cui partire, per valorizzare appieno i racconti di pazienti e caregiver, ha aggiunto Antonino Crinò dell’Ospedale Bambino Gesù IRCCS di Palidoro (Roma) e del Centro Malattie Rare Fondazione Policlinico Gemelli di Roma: “La medicina narrativa ci permette di comprendere meglio l’impatto della PWS su bambini, ragazzi e adulti che la vivono in prima persona e sulle loro famiglie. É possibile conoscere le conseguenze che la diagnosi della malattia ha avuto nella vita di queste persone, quali bisogni reali e quali problematiche e difficoltà quotidiane ha creato nelle loro famiglie.  Aver sentito per diretta voce nelle narrazioni dei pazienti e dei caregivers, il vissuto della malattia e ascoltato le loro sofferenze, ci dà informazioni preziose per migliorare la gestione multidisciplinare e multiprofessionale della malattia, spesso difficile, soprattutto nell’età adolescenziale e nell’adulto.”