Un possibile biomarcatore per predire la risposta delle recidive del glioblastoma al regorafenib: lo studio pubblicato su Clinical Cancer Research
Nel percorso di trattamento di un tumore è importante disporre di biomarcatori che possano predire la risposta dei pazienti alle terapie disponibili, in modo da scegliere quelle più efficaci e che causino meno effetti collaterali, anche in considerazione della specifica malattia del paziente. Un passo in avanti in questa direzione è stato compiuto per le recidive del glioblastoma, per le quali esistono ancora poche opzioni terapeutiche. Il gruppo di ricerca è stato coordinato da Stefano Indraccolo, responsabile dell’Unità di oncologia di base sperimentale e traslazionale dell’Istituto oncologico veneto. Indraccolo e colleghi hanno pubblicato su Clinical Cancer Research i risultati dello studio, con cui mostrano che la molecola pACC potrebbe rivelarsi un biomarcatore predittivo per risposte positive delle recidive del glioblastoma al farmaco regorafenib.
La ricerca è nata nell’ambito di uno studio clinico più ampio che ha mostrato un effetto positivo del regorafenib, un farmaco con funzione antiangiogenica (in grado cioè di frenare lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni), per le recidive del glioblastoma. “Avevamo già scoperto, all’epoca in cui AIFA ha approvato la rimborsabilità di regorafenib, che il trattamento con questo farmaco aumenta la sopravvivenza dei pazienti rispetto al trattamento standard con lomustina. Tuttavia volevamo anche capire se ci sono pazienti che ne beneficiano in modo particolare” spiega Indraccolo. Con questo obiettivo, i ricercatori hanno messo alla prova alcune molecole che avevano individuato come possibili biomarcatori, in indagini con animali di laboratorio.
“Con una tecnica di analisi piuttosto sofisticata, la cosiddetta “digital pathology”, abbiamo analizzato i livelli di queste molecole in tessuti tumorali prelevati da 84 pazienti durante l’intervento chirurgico di asportazione del tumore. A metà dei pazienti era stato poi somministrato regorafenib e all’altra metà lomustina. Abbiamo osservato che, solo nei pazienti del primo gruppo c’era un’associazione positiva tra una migliore risposta clinica al farmaco e livelli particolarmente elevati di una molecola chiamata pACC.” In particolare, i pazienti con tumori positivi per questo marcatore mostravano un incremento mediano di sopravvivenza di oltre nove mesi quando trattati con il regorafenib, rispetto ai circa cinque mesi dei pazienti trattati con lomustina.
“La molecola pACC appartiene a un percorso biochimico coinvolto nella regolazione del metabolismo delle cellule tumorali, ma non sappiamo ancora cosa comporti l’attivazione di questo percorso per queste cellule. Scoprirlo è uno dei prossimi obiettivi della nostra ricerca” sottolinea Indraccolo, che ringrazia Fondazione AIRC per aver sostenuto i suoi studi fin dalle prime ricerche di base. Anche per un eventuale utilizzo clinico di pACC come biomarcatore, la ricerca continua: bisognerà infatti aspettare un nuovo studio clinico di conferma.