A Rea, nell’Oltrepo Pavese, mobilitazione per Villa Gaia, dove le donne possono rinascere dopo una violenza: rischia di scomparire
Si chiama Villa Gaia, ha poco più di dieci anni e rischia di scomparire entro fine gennaio se, con una straordinaria mobilitazione di solidarietà, non sarà raggiunta la cifra di 150mila euro per riscattarla all’asta, ristrutturarla e rilanciarla. È la casa delle donne di Rea, nell’Oltrepo pavese, fondata nel 2010 dalla fondazione Villa Gaia per volontà della sua presidente, Isa Maggi, in memoria di sua figlia, Gaia Santagostino, scomparsa nel 2008 a soli 23 anni.
Non un centro antiviolenza né una casa rifugio, ma uno spazio sociale destinato alla rinascita e al reinserimento lavorativo delle donne in uscita dalla violenza – circa dieci quelle sostenute con tre bambini – attivo fino al novembre del 2011 e poi finito nelle more di provvedimenti giudiziari e decreti ingiuntivi che ne hanno bloccato lo sviluppo e ora rischiano di mettere la parola fine a un modello di innovazione sociale al femminile ancora tutto da costruire.
LA STORIA DI VILLA GAIA
“Comprammo con la mia famiglia questi quattro immobili nel 2005, il sogno era di farne una struttura turistica con mia figlia Gaia, che all’epoca studiava Scienze Politiche all’università, e mia zia, che con mia nonna aveva gestito una trattoria in quella zona – racconta all’agenzia di stampa Dire (www.dire.it) Isa Maggi -. Nel settembre del 2008, a distanza di pochi giorni, sono morte sia Gaia che mia zia e quel sogno si è perso, ma l’anno successivo, nell’elaborare il mio dolore, ho avuto questa illuminazione di farne un luogo solidale per donne in difficoltà. E il 23 dicembre del 2009, il giorno del compleanno di Gaia, abbiamo inaugurato la parte agibile”.
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Il progetto, che prevedeva la nascita di una casa che accogliesse donne in uscita dalla violenza auto-sostenibile, era stato scelto anche dalla Regione Lombardia che avrebbe dovuto finanziare la metà dell’investimento, per un impegno finanziario pari a 500mila euro. Fondi mai arrivati a destinazione perché “nel corso di una verifica sono stati riscontrate irregolarità nei lavori“, in particolare rispetto a “problemi strutturali e barriere architettoniche”, che “ci hanno costretto a chiudere”, spiega Maggi.
Si innesca così una battaglia legale tra la fondazione e l’impresa al termine della quale all’indirizzo di Villa Gaia viene spedito un decreto ingiuntivo per il pagamento di una fattura di 220mila euro a favore dell’impresa, che la fondazione non è riuscita a saldare proprio a causa della sospensione del contributo regionale. Nel frattempo “l’impresa, a cui avevo chiesto il risarcimento dei danni– sottolinea Maggi- fallisce e il tribunale mette la casa all’asta”.
SALVIAMO VILLA GAIA: PARTE LA MOBILITAZIONE
Ma Isa Maggi non ci sta a veder sfumare il sogno di ricordare sua figlia attraverso un luogo solidale per tutte le donne in difficoltà e circa un anno fa dà il via a una raccolta fondi con Banca Etica.
“Fino a novembre siamo riuscite a raccogliere 5mila euro, ma se 5mila persone decidessero di investire anche solo 30 euro nel progetto, riusciremmo a riscattare Villa Gaia, a completare i lavori e rilanciare il progetto”. Che nel frattempo si è arricchito di un ulteriore tassello. “Durante il lockdown ho avuto modo di confrontarmi con gli studenti di ingegneria dell’università di Reggio Emilia e Modena, che hanno visto nella struttura un’innovazione sociale“, racconta la presidente della fondazione.
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“Abbiamo messo in piedi un gruppo di lavoro e studiato il progetto, lo abbiamo modellizzato e reso replicabile- chiarisce Maggi- Quei ragazzi, che avevano l’età di Gaia, sono stati un grosso aiuto per me, hanno intervistato donne vittime di violenza, lavorato col territorio, e io sono riuscita a togliere da quei muri il dolore per la perdita di mia figlia”.
Villa Gaia si è trasformata, così, in una “challenge sociale“, che punta a fare di quel luogo non una “casa di autonomia tradizionale, ma una casa delle donne economicamente sostenibile, in grado di sopravvivere senza finanziamenti e contributi esterni attraverso una rete di imprese e di università in grado di aiutare le donne sul territorio, caso per caso”, conclude la presidente della fondazione, che lancia un appello: “Crediamo nel fatto che tutti noi possiamo essere parte di questo progetto e che non possiamo andare avanti da soli. Basta un piccolo investimento di 30 euro per dare vita a un progetto che contribuisca alla nascita di una nuova società ed economia della cura”.