Dopo il colpo di stato in Myanmar la giunta militare mette il bavaglio ad attivisti, giornalisti, oppositori politici e blocca Facebook: “Diffonde fake news”
In Myanmar la giunta militare ha bloccato Facebook e gli altri social network più usati, nel tentativo di fermare l’opposizione che si è sollevata contro il colpo di stato di lunedì. Tre persone sono state arrestate ieri proprio in relazione alle loro attività online. “Ci sono persone che stanno creando instabilità nel Paese diffondendo false notizie e favorendo la disinformazione e questo genera malintesi tra la popolazione che usa Facebook”, ha fatto sapere in una nota il ministero delle Comunicazioni e dei trasporti, chiarendo che il blocco durerà almeno da oggi fino a domenica. In Myanmar le piattaforme web di condivisione sono diventate lo strumento principale per attivisti, giornalisti, oppositori politici e difensori della democrazia per denunciare – anche all’estero – la presa del potere da parte dell’esercito e l’ondata di arresti che ne è seguita, con l’incriminazione della presidente de facto del Paese, la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Azioni, queste, condannate da vari governi stranieri, compreso quello degli Stati Uniti. Secondo stime rilanciate dalla stampa internazionale, dei circa 53 milioni di abitanti del Myanmar quasi la metà è iscritta almeno a Facebook.
La testimonianza di un residente a Yangon
“In questo momento la situazione in Myanmar è tesa. La presenza delle forze di sicurezza è pesante. Non si registrano scontri ma gli arresti proseguono, anche se con minor intensità. Le strade sono vuote, ma era così anche nei giorni scorsi a causa delle restrizioni anti-Covid. Le manifestazioni e i sit-in non si vedono da tanto”. Con l’agenzia Dire (www.dire.it) parla un residente di Yangon, capitale del Myanmar fino al 2006 e metropoli più popolosa del Paese.
L’uomo ha chiesto di restare anonimo per ragioni di sicurezza: lunedì la presa del potere da parte dei militari, con l’arresto della presidente de facto Aung San Suu Kyi e l’imposizione dello Stato d’emergenza, è stata accompagnata da arresti non solo tra i politici ma anche tra attivisti, giornalisti, intellettuali ed esponenti della società civile.
L’instabilità politica si somma a condizioni di vita precarie per molti. “I salari in media sono bassi e non arrivano a coprire il costo della vita” dice il residente. “Le condizioni di lavoro sono pessime. Esistono leggi sul lavoro, ma il più delle volte non vengono applicate. L’attività sindacale è ancora agli inizi e raggiunge solo l’1 per cento dei lavoratori. Inoltre è soggetta a persecuzioni”. La situazione migliora per chi lavora nelle fabbriche collegate ai grandi brand della moda internazionale – di cui questa regione asiatica è colonna portante, fornendo sia filati che prodotti finiti – ma secondo la fonte da Yangon non si può parlare di vita accettabile. “La cosa peggiore è l’alloggio” spiegano alla Dire. “Tutti i lavoratori delle zone industriali di Yangon vivono in zone squallide, in appartamenti sovraffollati, senza servizi, che costano il 30-40 per cento dello stipendio. Esistono fondi e servizi di tutela sociale gestiti dallo Stato ma i benefici sono pochi”.
A questo quadro si è sommato il Covid-19. “Il virus si è diffuso rapidamente soprattutto nei popolosi sobborghi e, per via della crisi economica che ha fatto crollare le esportazioni, ci sono almeno 70.000 nuovi disoccupati” continua il racconto. “Così, se prima la paga minima giornaliera per legge ammontava a 0,3 dollari (pari a 25 centesimi di euro), ora in molti vengono pagati di meno e avere un contratto è raro, soprattutto per giovani e donne”. La chiave per uscire da questa situazione è in “politiche sociali che siano attente ai diritti dei lavoratori”, secondo la fonte della Dire. Che aggiunge: “Senza tutele e interventi ad hoc, la classe lavoratrice non ce la farà. La comunità internazionale sostiene la società civile, ma non basta, servono maggiori sforzi per mettersi al passo con i Paesi vicini“. Quanto ad Aung San Suu Kyi, in stato di arresto e incriminata, la lettura è netta: “È la madre del popolo del Myanmar”.