Epatite C: nuove strategie se non funzionano antivirali


Epatite C: oggi sono a disposizione nuove strategie terapeutiche nei pazienti che non rispondono agli antivirali ad azione diretta

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È vero, per la cura dell’epatite C abbiamo diversi farmaci anzi combinazioni molto efficaci che riescono a far raggiungere la risposta virologica sostenuta (SVR) a più del 95% dei pazienti. Cosa succede in chi non risponde ai trattamenti? Quali sono i meccanismi di resistenza e le eventuali strategie che si possono mettere in atto? Ne ha parlato il professor Massimo Puoti, Direttore dell’Unità Complessa di Malattie Infettive presso l’Ospedale Niguarda di Milano durante la XIX edizione del congresso SIMIT.

Oggi abbiamo a disposizione, per il trattamento dei pazienti con HCV, farmaci molto potenti, efficaci e pangenotipici; ciò ha portato la “non risposta” alle terapie antivirali orali per l’epatite C una sostanziale caratteristica di aneddoticità.

Le terapie attualmente disponibili rimborsate in Italia, come elbasvir/grazoprevir per il genotipo 1b, come glecaprevir/pibrentasvir (G/P) in tutti i genotipi, sofosbuvir/velpatasvir (SOF/VEL) con o senza ribavirina danno percentuali di risposta largamente superiori all’85%.

Le coorti internazionali confermano i dati dei trial clinici sui vari farmaci e le percentuali di risposta superano il 95% sia per G/P che per SOF/VEL per 12 settimane.

In Italia il numero totale di trattamenti ad oggi avviati per l’HCV è di 216.758 (dicembre 2020), considerando anche il calo generato dall’epidemia da Covid-19.

Tenendo conto di questo calcolo, nel nostro paese ci sono tra i 2000 e gli 8000 pazienti che non hanno raggiunto l’SVR, di cui diventa importante la gestione e capire i meccanismi di resistenza. “Questi ultimi sono multifattoriali, dipendendo dalla condizione del paziente e soprattutto oggi dal livello di malattia epatica. Le terapie oggi sono molto più efficaci e quindi sono meno rilevanti dal punto di vista della risposta mentre i fattori virologici giocano un ruolo di grande rilievo” evidenzia Puoti.

Lo stadio di malattia epatica e l’aderenza del paziente sono variabili importanti. Un lavoro pubblicato su Liver nel 2020 indica che nei pazienti che hanno un’aderenza intorno all’80% c’è una minore percentuale di risposta ma se in questo totale non vengono considerate le persone che hanno sospeso precocemente la terapia, la percentuale rimane sempre superiore al 95%.

“Quindi, il problema grosso è quella della sospensione prematura dei farmaci” precisa Puoti.

Altre cause di mancata risposta al trattamento
La prima è la cirrosi scompensata; in questa condizione è raccomandato prescrivere al paziente sofosbuvir/velpatasvir con aggiunta della ribavirina per poter ottenere una risposta sostenuta.

Un’altra causa un po’ criptica è quella dell’epatocarcinoma. Dati su pazienti con cirrosi e con epatocarcinoma e senza epatocarcinoma trattati con varie terapie evidenziano un tasso di recidiva più elevato nel paziente con epatocarcinoma.

“I motivi possono essere diversi, probabilmente i pazienti con epatocarcinoma erano pazienti con malattia epatica più avanzata oppure la replicazione virale avviene nelle cellule tumorali ma queste cellule per loro stato differente non permettono l’ingresso dei farmaci.

Il consiglio pratico è: davanti a un cirrotico che non risponde al trattamento, dare un occhio all’imaging del fegato perché la possibilità di trovare un epatocarcinoma è probabilmente un po’ più alta rispetto a un responder, che non è stato visto in prima battuta” evidenzia Puoti.

“Oltre ai meccanismi di resistenza che riguardano l’ospite ci sono quelli che riguardano la terapia ma questi sono sostanzialmente un portato del passato, dei vecchi trattamenti. Oggi non ci sono più grossi problemi di interferenze farmacologiche, i farmaci attualmente disponibili hanno un moderato profilo di resistenza. grosso modo i farmaci che possono creare problemi sono farmaci come rifampicina, carbamazepina che agiscono attraverso un’induzione della Pgp e, quindi, in presenza induzione abbassano i livelli del farmaco anti epatite virale e possono procurare una ridotta risposta.

In realtà, il trattamento subottimale è una storia vecchia risalente a quando i trattamenti non erano ben standardizzati soprattutto per il genotipo 3, per quel che riguarda la durata del trattamento” aggiunge Puoti.

Parlando di resistenza, i fattori virologici sono sicuramente importanti; esistono problemi correlati alla presenza di sottotipi inuguali che hanno delle mutazioni associate a resistenza presenti prima dell’inizio del trattamento che sono particolarmente rilevanti soprattutto quando si procede col ritrattare i pazienti che hanno fallito un trattamento precedente con farmaci DAA, soprattutto inibitori di NS5A.

Il genotipo è importante, l’ultima versione delle linee guida EASL affermano che il genotipo è un qualcosa in più in un’ottica di eliminazione. Laddove l’accesso al trattamento è ridotto bisogna puntare a delle terapie semplificate che non tengono conto del genotipo stesso quindi una terapia a taglia unica per tutti assolutamente utilizzabile come glecaprevir/pibrentasvir e sofosbuvir/velpatasvir.

“Tuttavia, sappiamo che la variabilità genetica dell’HCV gioca un ruolo molto importante nella patogenesi di questa malattia e quindi la presenza di cambiamenti nella struttura degli aminoacidi rispetto alla sequenza di consenso dell’esposizione ha definito quelle che sono le sostituzioni associate alla resistenza” sottolinea Puoti.

Sono sostituzioni nella composizione della proteina che riducono la suscettibilità a uno o più farmaci antivirali. “Per definire una sostituzione associata a resistenza occorre sapere genotipo, sottotipo, qual è la proteina e qual è la posizione degli aminoacidi” spiega Puoti.

Esistono delle classi di resistenza che sono specifiche per il farmaco e alcune anche specifiche per la classe di farmaci. La maggior parte delle sostituzioni clinicamente significative sono nella proteina NS5A e persistono una volta acquisite, soprattutto nei genotipi 1a e 3.

Non tutte le sostituzioni sono clinicamente rilevanti allo stesso modo, alcune determinano una resistenza nell’ambito del genotipo 1a, alcune 1b, alcune genotipo 3 e quindi vanno considerate rispetto al genotipo e rispetto allo specifico farmaco che si vuole somministrare.

Trattamenti da adottare
Dai dati derivanti dai trial controllati, con glecaprevir/pibrentasvir nei pazienti non cirrotici le sostituzioni associate a resistenza presenti prima del trattamento hanno un impatto minimo, nel genotipo 3 c’è un impatto del polimorfismo A30K che è presente nel 10% dei non cirrotici e che nei trial ha dato una diminuzione della SVR.

Per quanto riguarda sofosbuvir/velpatasvir, il polimorfismo Y93H riduce all’84% la risposta nei trial controllati; questo effetto è particolarmente rilevante nei pazienti cirrotici ma aggiungendo la ribavirina probabilmente si può migliorare e riportare la suscettibilità a livelli normali come mostrano alcuni studi soprattutto retrospettivi inglesi.

Per quanto riguarda sofosbuvir/velpatasvir/voxilaprevir non c’è un impatto importante anche se nel genotipo 1a probabilmente possono giocare un ruolo alcune sostituzioni associate a resistenza.
Le sostituzioni associate a resistenza non hanno da sole un ruolo importante devono accoppiarsi ad altri fattori (almeno due fattori in contemporanea).

“In uno studio francese il 22% dei pazienti falliti erano infetti con genotipo 4R che è raro e di origine africana. Dal database SHARED di 1176 pazienti che hanno fallito terapie basate sull’inibitore dell’NS5A, 74 avevano sottotipi inusuali che vengono da Paesi verso cui noi abbiamo una certa immigrazione.
Quando vengono identificati sottotipi che hanno sostituzioni associate a resistenza naturali l’indicazione è quella di usare una triplice terapia con sofosbuvir/velpatasvir e voxilaprevir” aggiunge Puoti.

In conclusione, genotipizzazione e sottotipizzazione sono ancora molto importanti in una terapia sartoriale dell’epatite C e va tenuto presente che nei pazienti con cirrosi compensata e genotipo 3 probabilmente va aggiunta la ribavirina nel trattamento con SOF/VEL e nei pazienti con sottotipi rari è meglio usare una triplice terapia. L’uso del genotipo e del sottotipo possono essere utili per rifinire ulteriormente le percentuali di risposta.

Le strategie terapeutiche di ritrattamento in pazienti che hanno fallito la terapia a base di interferone o sofosbuvir ribavirina prevedono gli stessi trattamenti usati per gli altri pazienti.

Nei pazienti che hanno fallito il trattamento con inibitori dell’NS5A, il ritrattamento di prima linea è la triplice con sofosbuvir/velpatasvir e voxilaprevir e solo nei pazienti scompensati ha un ruolo sofosbuvir/velpatasvir più ribavirina, quelli con malattia avanzata hanno bisogno di più cicli di terapia e quelli con un complesso profilo di RAS NS5A hanno bisogno di maggiori attenzioni che includono l’aggiunta di ribavirina a sofosbuvir/velpatasvir oppure l’aggiunta di sofosbuvir/ribavirina a glecaprevir/pibrentasvir.

L’efficacia della triplice terapia è stata dimostrata da diversi trial; estrema efficacia di SOF/VEL/VOX dopo 12 settimane con risposte che arrivano al 97% nei casi di fallimento della prima linea di terapia soprattutto se si tratta di G/P mentre le la prima linea è SOF/VEL non sempre si ottiene un’alta risposta nel ritrattamento.