Epatite delta, tra le nuove opzioni di trattamento che potrebbero essere presto approvate ci sono: lonarfarnib, interferone lamba e bulevirtide
L’epatite cronica D o delta è la forma più severa di epatite virale per la quale non ci sono ancora farmaci approvati. Qualcosa però potrebbe arrivare entro quest’anno e diverse molecole in fase di studio stanno dando buoni risultati. Ne ha parlato il prof. Pietro Lampertico, Divisione di Gastroenterologia ed Epatologia,Fondazione IRCCS Cà Granda – Ospedale Maggiore Policlinico,Università di Milano, durante il XIX congresso della SIMIT lo scorso dicembre.
Si calcola che 10-20 milioni di individui sono positivi agli anti-HDV, anticorpi che notificano la presenza nel corpo umano del virus dell’epatite delta, microorganismo difettivo che necessita dell’ HBsAg per la sua propagazione.
Impatto dell’HDV
Questo virus può provocare la forma più grave di epatite virale cronica che può evolvere rapidamente verso la cirrosi epatica e il cancro del fegato; questi individui hanno una probabilità 5-7 volte superiore di sviluppare cirrosi e carcinoma epatico (HCC) rispetto ai soggetti con epatite B.
Ad oggi non vi sono terapie approvate dall’ Fda o dall’Ema (gli analoghi nucleosidici (NUC) non sono efficaci, interferone (IFN) va bene solo per pazienti selezionati e con una bassa risposta), sono pertanto necessarie nuove terapie efficaci.
In Italia, la prevalenza di epatite B è dello 0,6% nella popolazione totale e la percentuale di diagnosi è del 29%, la coinfezione con HDV ha una prevalenza del 9.9% tra le persone HBsAg positive che corrisponde al 6.4% negli italiani e al 26.4% tra gli emigrati. Gli anticorpi anti-HDV sono stati rilevati più frequentemente nei pazienti con cirrosi (17,5% vs 5,4%).
In uno studio condotto dai centri di riferimento HDV, la maggior parte (80,3%) degli HDV co-infettati aveva un’età superiore ai 50 anni. La presenza di cirrosi epatica è stata diagnosticata nel 52,4% dei casi.
Trattamento
Tra le nuove opzioni di trattamenti ci sono: lonarfarnib, interferone lamba e bulevirtide.
Lonarfarnib
Lonarfanib è un inibitore orale della prenilazione, che può essere usato con o senza IFN. È stato ben caratterizzato nei pazienti: 2.000 pazienti trattati con il programma di oncologia di Merck (Schering); 90 bambini trattati con il programma Progeria del Boston Children’s Hospital; 170 pazienti trattati con il programma HDV. È stato valutato con una durata massima della somministrazione superiore a 10 anni.
Gli eventi avversi più comuni sono correlati al sistema gastrointestinale secondo un effetto di classe.
Ha ottenuto la designazione di farmaco orfano sia in USA che in UE ed è stato definito come una terapia rivoluzionaria dall’Fda e ha ottenuto la designazione Ema PRIME.
Dallo studio LOWR si evince che è possibile ridurre le dosi del farmaco da 200 mg a 100 mg in terapia di combinazione e che l’efficacia risulta superiore quando lonarfarnib viene associato a ritonavir rispetto alla combinazione con interferone peghilato.
I dati su lonafarnib (LNF) orale potenziato con ritonavir (RTV) evidenziano un declino del 39% (7 su 18 pazienti) dell’HDV RNA espresso come diminuzione di almeno 2 log o BLQ alla settimana 24. A tale settimana il 60% dei pazienti aveva normalizzato l’ALT.
La combinazione, lonafarnib potenziato con RTV insieme a PEG IFN-alfa2a consente da diminuzione dell’HDV RNA dell’89% (8 su 9 pazienti) con riduzione di almeno 2 log o BLQ alla settimana 24. A tale settimana il 78% dei pazienti aveva normalizzato l’ALT.
Per quanto riguarda la sicurezza, gli eventi avversi predominanti per LNF erano correlati al GI (lieve/moderati).
Partirà a breve uno studio di fase 3, D-LIR, in 12 centri italiani, ad oggi è in fase di reclutamento e valuterà a 48 settimane il declino dell’HDV RNA e la normalizzazione dell’ALT e verrà verificato il miglioramento istologico e della fibrosi come endpoint secondari sempre a 48 settimane.
In tale studio verrà somministrato lorarfarnib insieme a ritonavir con e senza interferone e ci sarà un gruppo placebo parallelo.
Interferone lambda
È un interferone di tipo III che si lega a un recettore unico rispetto all’IFN-ɑ di tipo I. Questo recettore è altamente espresso sugli epatociti mentre ha espressione limitata sulle cellule ematopoietiche e del SNC.
Utilizza un percorso di segnalazione a valle simile all’ IFN-ɑ; è stato valutato in oltre 3.000 pazienti in 19 studi clinici (HCV/HBV/HDV) e ha avuto la designazione orfana negli Stati Uniti e nell’UE e la designazione di terapia innovativa dall’FDA.
Lo studio LIFT HDV, di fase 2, in aperto, su peginterferone lambda, lonafarnib e ritonavir per 24 settimane ha evidenziato l’insorgenza di eventi avversi per lo più da lievi a moderati che hanno richiesto la riduzione della dose in 3 pazienti e interruzione del trattamento in 4 (15%) pazienti.
Lo studio conclude che LMD/LNF/RTV nei pazienti con HDV cronica sembra essere sicuro e ben tollerato fino a 6 mesi nella maggior parte dei pazienti. Dopo 24 settimane, quasi tutti i pazienti raggiungono una diminuzione> 2 log dell’RNA HDV, con più del 50% che raggiunge livelli non rilevabili o <LLOQ HDV RNA
Bulevirtide
Bulevirtide è il primo di una nuova classe di farmaci “entry inhibitor”. Questo farmaco funziona bloccando il recettore NTCP che permette l’ingresso di HBV/HDV, in tal modo vengono prevenute nuove infezioni. Gli epatociti infetti vengono sostituiti da cellule nuove, che saranno protette dall’infezione, di conseguenza, viene prevenuta la diffusione virale nel fegato.
I pazienti possono autosomministrarlo attraverso iniezione sottocutanea, 1 volta al giorno.
Lo studio MYR203 e la sua estensione per 48 settimane con bulevirtide in monoterapia o in associazione a PEG-IFN in pazienti con infezione cronica HBV/HDV mostra che tale farmaco è efficace già al dosaggio più basso di 2 mg se associato a PEG-IFN nel diminuire l’HDV RNA.
Dopo 48 ore, l’RNA non è rilevabile in media nell’80% dei pazienti trattati con i due farmaci e questa condizione rimane significativa rispetto al farmaco non associato anche a 72 ore. A 48 e 72 ore è evidente anche un declino dell’HBsAg soprattutto al dosaggio di 2 mg di bulevirtide sempre associata a PEG-IFN ma con il farmaco somministrato da solo si ha completa negativizzazione dell’antigene HBsAg cosa che si instaura anche se la bulevirtide viene somministrata a 10 mg in combinazione con TDF.
Visto che il dosaggio più basso di 2 mg sembra mostrare buoni risultati, adesso si aspettano risultati con tempi di studio più lunghi.
Dallo studio di Loglio et al del 2019 emerge che la monoterapia con bulevirtide in pazienti con epatite cronica può migliorare il quadro epatitico, far scomparire le varici esofagee, aumentare i valori di albumina e migliorare i punteggi del fibroscan. Questo studio si riferisce al “paziente di Milano” che era in trattamento con TDF dal 2012, aveva diabete, coinfezione HBV/HDV cronica con cirrosi compensata e piccole varici esofagee. Per tale motivo il PEG-IFN era controindicato.
La bulevirtide è stata approvata in Europa nel luglio 2020 per la cirrosi compensata; è attesa l’approvazione e il rimborso AIFA in Italia per fine 2021. Non è ancora disponibile alcun protocollo di uso compassionevole ma vi è in fase di sviluppo un protocollo di studio clinico in cirrotici scompensati.
Oltre a questi farmaci che si trovano in fase avanzata di sviluppo clinico e la bulevirtide vicinissima all’approvazione, ci sono anche altre opportunità terapeutiche in fase precoce di sviluppo come farmaci a base della tecnologia dell’RNA interference, inibitori del rilascio dell’HBsAg, inibitori della polimerasi virale e dell’assemblaggio del capside ma anche farmaci che hanno come target il cccDNA o che agiscono attraverso immunomodulazione.
In conclusione, l’epatite cronica D è la forma più severa di epatite virale per la quale non ci sono ancora farmaci approvati ma promettenti molecole in sviluppo su cui sono attivi anche due studi di fase 3 in Italia. La bulevirtide verrà probabilmente approvata da AIFA entro la fine del 2021.