Editing genomico per la retinite pigmentosa:evidenziati i benefici di Crispr-Cas9 contro le forme autosomiche dominanti di questa patologia
A differenze di molte malattie genetiche che sono caratterizzate da mutazioni che interessano un solo gene, la retinite pigmentosa (RP) è una patologia ereditaria della retina estremamente eterogenea sul piano genetico. Infatti, si conoscono forme ad ereditarietà legata al cromosoma X, altre autosomiche recessive e altre ancora ad ereditarietà autosomica dominante. Per alcune di queste ultime ha mostrato buoni risultati uno studio preclinico incentrato sull’editing genomico che è stato condotto nei laboratori dell’Istituto Tigem di Napoli e dell’ Università di Modena e Reggio Emilia e da poco pubblicato sulla rivista scientifica American Journal of Human Genetics.
Ad oggi, si stima vi siano oltre 3000 varianti a danno di circa 70 geni in grado di provocare la retinite pigmentosa e più di 150 mutazioni sono state associate al gene della rodopsina (RHO), responsabile della forma dominante di questa patologia. Ciò significa che è sufficiente una variante in una copia del gene perché si manifestino i sintomi della malattia caratterizzata da una progressiva perdita del campo visivo centrale. Negli ultimi anni la terapia genica, anche grazie a farmaci come voretigene neparvovec, ha assunto un ruolo importante nella lotta alle distrofie retiniche ereditarie ma contro le forme dominanti di retinite pigmentosa è necessario un diverso punto di partenza. Lo spiega Alberto Auricchio, professore di Genetica Medica presso l’Università “Federico II” di Napoli e coordinatore del programma di ricerca Terapie Molecolari dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Napoli.
Prof. Auricchio, in che cosa si differenzia il vostro lavoro dagli altri filoni di ricerca sulla terapia genica? E per quale motivo avete scelto questa strada?
L’approccio di editing genomico realizzato nei laboratori della prof.ssa Alessandra Recchia e mio si fonda su basi differenti da quelle impiegate per altre forme di cecità ereditaria, la più nota delle quali è l’amaurosi di Leber, per cui esiste un farmaco di terapia genica già sul mercato. Infatti, la terapia genica classica prevede l’aggiunta di una copia corretta del gene all’interno delle cellule della retina e trova tipicamente utilizzo contro le forme di RP recessive, cioè quelle forme in cui entrambe le copie del gene sono mutate e non funzionano. In questo caso l’aggiunta di una copia corretta restituisce la funzione persa ma, nel caso di una patologia dominante come quella di cui ci siamo occupati, la mutazione nel gene della rodopsina determina la produzione di una proteina tossica per l’organismo.
La rodopsina è una proteina essenziale per la conversione dell’impulso luminoso in un segnale chimico grazie a cui il cervello elabora le immagini; nelle cellule in cui è presente una mutazione la rodopsina tende ad aggregarsi in maniera patologica provocando la morte delle cellule. La terapia genica tradizionale tramite cui si aggiunge una copia corretta del gene non sortirebbe alcun effetto terapeutico in casi di RP dominante dal momento che il problema non è l’assenza di una funzione ma la presenza di una nuova funzione, considerata tossica e legata alla mutazione. Occorre perciò un intervento per disattivare la copia mutata del gene che produce la proteina tossica e per questo abbiamo deciso di ricorrere al sistema di editing genomico Crispr-Cas9, portando le forbici molecolari dentro le cellule della retina grazie a un vettore virale adeno-associato (AAV). In questo modo si esegue un taglio mirato a livello della copia del gene che produce la proteina tossica, disattivandola e lasciando solo la copia sana del gene che ha un effetto benefico. Gli esperimenti che abbiamo condotto su modelli murini hanno dimostrato la riuscita di questa disattivazione.
A quali pazienti in particolare è rivolto questo approccio?
Questa strategia terapeutica è rivolta a pazienti con la forma più comune di RP dovuta a mutazioni nel gene che codifica per la rodopsina. Nelle forme dominanti, infatti, la malattia si presenta anche se una sola delle due copie del gene è mutata e coloro che ne sono affetti hanno una probabilità del 50% di trasmettere la malattia ai figli. In particolare, le nostre forbici molecolari sono appositamente disegnate per una specifica sottopopolazione di pazienti affetti da RP dominante che condividono la mutazione p.Pro347Ser, una delle più frequenti in Europa.
Quali vantaggi ha rispetto alle altre strategie terapeutiche in studio?
Il suo principale vantaggio – che può però essere visto anche come un limite – è che si tratta di una tecnica molto precisa ed è l’unica strategia che funziona in questi casi. La terapia genica, infatti, con l’aggiunta di una copia del gene sano è destinata a una larga fetta di pazienti ma nel caso di forme dominanti di RP come questa sarebbe inefficace. Il nostro sistema di forbici molecolari è stato progettato per inattivare un gene corrotto da una specifica mutazione perciò è utile solo per i pazienti che portano quella mutazione. Per questa ragione le ricerche basate su Crispr-Cas9 riguardano quasi sempre mutazioni frequenti nella popolazione.
Parallelamente al prosieguo degli studi sui modelli animali state gettando le basi per una trasposizione in clinica di questo progetto?
La traduzione in clinica di questo approccio è più complessa rispetto alla terapia genica tradizionale dal momento che la sicurezza del sistema di editing deve essere definito con grande accuratezza. Uno degli svantaggi di Crispr-Cas9 è che purtroppo, a volte, le forbici tagliano in maniera aspecifica il DNA (i cosiddetti tagli “off target”) col rischio di inattivare geni importanti. Nei nostri studi, fortunatamente, ciò non succede ma questa forbice è un enzima che viene inserito sotto forma di gene con il vettore AAV. Vogliamo essere certi che funzioni una sola volta e solamente nel punto specifico che ci interessa perciò dobbiamo continuare ad indagare la sicurezza dell’approccio prima di cominciare il cammino traslazionale.
L’obiettivo è l’esatto contrario della terapia genica, nella quale l’espressione del gene corretto dovrebbe durare il più a lungo possibile. Con l’editing del genoma, invece, l’ideale è disporre di una forbice che esegua il taglio e poi cessi di funzionare. Grazie a ricerche come quella condotta presso l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina di Napoli e l’Università di Modena e Reggio Emilia si riescono ad apprezzare meglio le sfumature che differenziano le varie terapie avanzate. Infatti, la tecnologia a cui sono ricorsi i ricercatori guidati dal prof. Auricchio e dalla prof.ssa Recchia, prevede che le forbici molecolari rimangano all’interno delle cellule per cui la traduzione in clinica avrà bisogno di un radicale aggiornamento del protocollo operativo, magari somministrando le forbici non più come un gene contenuto in un vettore virale ma come una proteina. Come dimostrano i risultati della terapia genica, ad oggi i vettori virali rappresentano il mezzo ideale per trasportare materiale all’interno delle cellule della retina, compreso il sistema Crispr-Cas9, ma sono diversi i gruppi di ricerca nel mondo che stanno cercando di sviluppare strategie di trasporto alternative. Inoltre, non bisogna trascurare l’aspetto legato alla ricomposizione della struttura del DNA dopo il taglio. La giunzione non-omologa dei due frammenti, che si effettua eliminando o inserendo qualche nucleotide, è più imprecisa ma meno complessa della ricombinazione omologa che necessita di una sequenza corretta come stampo. Ci siamo avvalsi della prima perché il nostro obiettivo era inattivare la copia malata del gene e così facendo abbiamo eliminato il problema alla radice. A differenza delle cellule del sangue, che si replicano molto di più, i fotorecettori della retina sono quiescenti per cui la ricombinazione non-omologa era la soluzione più adatta da scegliere.