In libreria per Adelphi “Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza” di Baltasar Graciàn: la recensione di Nicola Pomponio
La casa editrice Adelphi ha, meritoriamente, ripubblicato “Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza” di Baltasar Graciàn, un libro stampato la prima volta nel 1647 e scritto da un gesuita aragonese. All’inizio della decadenza dell’impero spagnolo, Graciàn realizza un testo enigmatico, densissimo, spiazzante composto di 300 brevi aforismi fulminanti nella loro icasticità, paronomasie, ossimori, metafore, calembour. Il gesuita si assume il compito di elaborare una via, sempre strettissima, per il cristiano che opera nel mondo post rinascimentale e della prima modernità, un mondo che, dopo Machiavelli, sembra aver rescisso il legame non solo tra morale e politica, in nome della novella ragion di stato, ma anche tra morale e rapporti personali dando vita per contrapposizione, all’interno del Cattolicesimo stesso, a riflessioni polemiche rigoriste sfocianti nell’eterodossia di alcune posizioni gianseniste.
Ma la raccolta di Graciàn non è un “Colloquio con se stesso”, come il testo di Marco Aurelio il cui stoicismo spesso traspare tra le righe e neanche un insieme di “Pensieri” dominati dalla scommessa sull’esistenza di Dio, come il contemporaneo libro di Pascal, non è neppure l’antesignana di uno Zarathustra che si aggira nel deserto del moderno nichilismo, come la lesse Nietzsche dopo la riscoperta da parte di Schopenhauer. Graciàn è innanzi tutto un gesuita spagnolo del Siglo de oro e l’illuminante saggio di Marc Fumaroli in appendice ne chiarisce molto bene il significato. L’arte della prudenza parte dal presupposto della fragilità della condizione umana sempre in procinto di rovinare nel male. Nell’uomo il peccato originale ha creato un “vulnus” compromettendone, non irrimediabilmente a differenza di quanto sostenuto dal protestantesimo, le facoltà; nel suo spazio interiore, spesso viene citato il temine della teologia mistica synderesis, né totalmente corrotto né senza speranza, opera la Grazia divina e, attraverso la Grazia illuminante le proprie facoltà, l’uomo può agire, senza smettere di essere Cristiano, in un mondo che si è congedato dal Cristianesimo medievale.
Gli aforismi però non mirano a elaborare un’etica in sé conchiusa perché non si tratta di individuare delle norme rigide da applicarsi alle più svariate occasioni; l’obiettivo è mostrare come comportarsi con prudenza e autodisciplina, senza farsi trascinare dalle passioni, ma controllandole, poiché anch’esse possono essere utilizzate positivamente, agendo quindi non in modo rigido, ovvero prevedibile, bensì flessibile, in grado di adattarsi alle innumerevoli situazioni quotidiane né per una mera autoaffermazione né perseguendo una politica di potenza che abbia rescisso i legami dalla “respublica Christiana”. In un testo teologicamente densissimo (i problemi di fondo sono il rapporto tra Grazia e libertà dell’uomo, l’interpretazione di Agostino, la morale gesuitica contrapposta alla posizione giansenista, il valore dell’operare umano, l’antimachiavellismo) dove però la teologia non sembra mai comparire, l’ultimo brano dà il tono al tutto perché al fondo dell’opera, come sigillo finale del testo l’aforisma 300 s’intitola “In una parola, santo”.
Qui la virtù umana, santificata dalla Grazia divina, rende infine “un individuo saggio, attento, sagace, accorto, coraggioso, dignitoso, integro, felice” (pag. 145). Meditazioni sugli “Esercizi spirituali” di Loyola (“Dio si adopera e lavora per me in tutte le cose create sulla faccia della terra”, Quarta Settimana), sul Vangelo (“Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” Matt. 10,16,), sui grandi classici, in primis Cicerone, Tacito e Seneca, suggestioni dell’umanesimo cristiano erasmiano e del relativo confronto con Lutero sul “servo arbitrio”, nonché una ripresa del “Nulla di troppo” delfico rappresentano i punti di riferimento di Graciàn che sa bene di non poter cambiare la natura umana, ma vi si adegua (prudentemente), la accetta nelle sue debolezze e bassezze, nelle sue piccole cattiverie e grandi malvagità (i lupi dell’Evangelo), nella certezza che la Grazia divina opera in esse e l’uomo non è del tutto corrotto nel suo agire: è la ripresa gesuitica, si pensi a Matteo Ricci e San Francesco Saverio, dell’esempio paolino: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno”, 1 Cor. 9,22.
Ma il testo dell’Adelphi è di notevole interesse anche per il poc’anzi citato corposissimo saggio di Fumaroli. Il grande intellettuale francese ha il merito di ricondurre Graciàn alle sue coordinate di pensiero facendolo reagire con la cultura a lui contemporanea, soprattutto francese. Nell’analisi della ricezione oltralpe Fumaroli delinea un’interpretazione del Gran Siècle francese in cui il gesuita è posto in relazione con le correnti culturali del giansenismo, del gallicanesimo e del machiavellismo paganeggiante del Re Sole; emergono così, quasi in controluce rispetto al rapporto con Gracìan, i presupposti dei cosiddetti Lumi settecenteschi nonché l’approdo all’ideologia rivoluzionaria. Fumaroli tratteggia una “via francese alla modernità” di notevole interesse anche per noi italiani perché spesso i percorsi intellettuali franco-spagnoli incrociano la letteratura, le arti e la politica degli stati della penisola e soprattutto nei centri più importanti di Venezia, Roma e Napoli.
E’ da rilevarsi, in chiusura, come nel Belpaese su Gracìan, sul barocco e su tutto il ‘600 italiano abbia pesato il giudizio negativo della critica otto novecentesca di Croce e prima ancora di De Sanctis. Il XVII secolo, compreso l’autore dell’Oracolo, è stato visto solo come decadenza, vuota verbosità, arido artificio. Così è poco ricordato Torquato Accetto e la sua “Della dissimulazione onesta”, Napoli 1641, ove il termine dissimulazione, centrale nel gesuita aragonese, non è sinonimo di ipocrisia, ma affonda le radici nell’ambiguità ontologica dell’uomo nello status naturae lapsae; non si presta attenzione alla poesia di Giovan Battista Marino e al suo ammirevole lavoro sulla lingua, che sarebbe così utile per tanti improvvisati poeti contemporanei obnubilati dalla ipostasi del “genio”; sono ignorate le eleganti poesie in latino di Urbano VIII Barberini, pensate proprio contro Marino in funzione antispagnola e filofrancese.
Trascurati sono i legami della nostra cultura con la poesia di Gòngora, i pìcari di Quevedo il teatro di Lope de Vega e Calderon de la Barca; ricordiamo Cervantes ma poco conosciuto è Graciàn il cui trattato di estetica, “L’acutezza e l’arte dell’ingegno”, è stato posto in relazione, dalla critica più avvertita, con le avanguardie novecentesche, ma è stato disprezzato da Croce. Proprio per riavvicinarci a questi autori, italiani e spagnoli, per riprendere il filo che a loro ci lega, per riscoprire il loro ruolo europeo, talvolta mediterraneo, sempre sovranazionale vale la pena rileggere Graciàn. Egli, a distanza di quattro secoli ha ancora molto, moltissimo da insegnarci e da dirci non solo su noi stessi ma anche sul Cattolicesimo e sull’attuale Pontefice che della famiglia spirituale di Graciàn e della sua tradizione teologica e filosofica, per tacere della lingua, fa saldamente parte.
di Nicola F. Pomponio