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Teplizumab blocca il diabete di tipo 1

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L’immunoterapico sperimentale anti-CD3 teplizumab ritarda l’insorgenza del diabete di tipo 1 nei soggetti a rischio secondo nuovi risultati

Oltre cinque anni dopo la somministrazione dell’immunoterapico sperimentale anti-CD3 teplizumab, la metà dei soggetti ad alto rischio di sviluppare il diabete di tipo 1 è rimasta libera dalla malattia rispetto al 22% di quelli sottoposti a placebo. Inoltre quanti hanno sviluppato il diabete lo hanno fatto in media circa cinque anni dopo la terapia, rispetto ai 27 mesi del gruppo placebo. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine.

«Se verrà approvato per questo utilizzo, teplizumab sarà il primo farmaco in grado di ritardare o prevenire il diabete di tipo 1» ha affermato il co-autore senior della ricerca Kevan Herold, professore di immunobiologia ed endocrinologia presso la Yale School of Medicine. Il farmaco, sviluppato dalla compagnia biotech Provention, ha ottenuto dalla Fda statunitense lo status di breakthrough therapy e potrebbe essere approvato per l’uso generale entro l’estate, ha aggiunto.

Importante cercare di prevenire il diabete
Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune in cui le cellule T attaccano le cellule beta pancreatiche. Studi osservazionali longitudinali di oltre 30 anni hanno descritto la progressione della malattia dalla prima comparsa degli autoanticorpi fino al verificarsi di una compromissione critica della funzione delle cellule beta e della diagnosi clinica.

Chi soffre di diabete di tipo 1 necessita della terapia insulinica per tutta la vita e va incontro a un rischio più elevato di decesso e complicanze a carico del cuore, dei reni e della vista, «quindi gli approcci per prevenire la progressione fino alla malattia conclamata, prima che si verifichino la distruzione irrimediabile delle cellule beta e una carenza di insulina, sono di fondamentale importanza» hanno scritto gli autori.

Dati dal follow-up esteso del trial TN10
Teplizumab è un anticorpo monoclonale anti-CD3 non legante per il recettore Fc, che ha mostrato di ridurre il declino delle risposte del peptide C rispetto al placebo o ai controlli nello studio di fase II TrialNet anti-CD3 prevention trial (TN10). Il farmaco aveva dimostrato di ritardare l’insorgenza del diabete di tipo 1 nei parenti ad alto rischio di persone già affette dalla malattia.

La nuova analisi dei dati dello studio TN10 intendeva estendere di 12 mesi il precedente periodo di follow-up, scoprendo che l’efficacia del ciclo di trattamento iniziale di 2 settimane persisteva con un aumento del tempo alla diagnosi di diabete, supportando ulteriormente l’impiego di un trattamento anti-CD3 per prevenire la malattia.

Lo studio è stato supervisionato dalla Yale School of Medicine e realizzato in collaborazione con ricercatori dell’Università dell’Indiana. L’analisi dei 76 partecipanti, con età media di 13 anni e parenti con diabete di tipo 1, ha mostrato una riduzione del danno causato dai linfociti T e un migliore funzionamento delle cellule beta produttrici di insulina nei soggetti esposti alla terapia.

Il tempo mediano all’insorgenza del diabete nel gruppo teplizumab è stato di circa 5 anni rispetto a poco più di 2 anni nel gruppo placebo, con il 50% dei soggetti in trattamento attivo senza diagnosi di diabete, contro il 22% di quelli sottoposti a placebo. Il 18% dei soggetti nel gruppo teplizumab è stato seguito per più di 5 anni senza diagnosi di diabete, rispetto al 6% del gruppo placebo.

Modulazione della secrezione di insulina
Il trattamento con teplizumab ha migliorato la funzione delle cellule beta, anche in quanti non hanno ricevuto una diagnosi di diabete di tipo 1. Il farmaco ha ridotto le concentrazioni medie di glucosio OGTT, ha aumentato le risposte del peptide C e ha migliorato la secrezione di insulina sia totale che precoce, portando un beneficio funzionale e quantitativo nel rilascio di insulina.

La secrezione precoce di insulina, una caratteristica della normale funzione delle cellule beta, è stata la più modificata, a indicare un miglioramento della ridotta sensibilità al glucosio delle cellule beta descritta nei pazienti che progrediscono verso la forma clinica della malattia.

In sintesi teplizumab ha evidenziato un ritardo prolungato nella progressione al diabete di tipo 1 nei soggetti a rischio. La terapia immunologica ha modificato il decorso biologico della malattia migliorando la funzione delle cellule beta, come riflesso dai miglioramenti quantitativi e qualitativi nella secrezione di insulina associati alla modulazione della frequenza e della funzione dei linfociti T CD8.

«La pronunciata efficacia precoce del farmaco, seguita dalla stabilizzazione della funzione delle cellule beta, suggerisce anche che il trattamento ripetuto, che in precedenza si è dimostrato sicuro, o l’aggiunta di altri farmaci che agiscono direttamente sulle cellule beta in momenti chiave del decorso clinico, può essere utile per dilazionare l’insorgenza del diabete o per prevenirne la diagnosi» hanno concluso gli autori. «I nostri risultati hanno implicazioni anche per altre malattie autoimmuni, avendo dimostrato che l’intervento immunitario può cambiare la patobiologia anche prima della diagnosi di diabete e portare a un risultato clinicamente significativo»

Bibliografia

Sims EK et al. Teplizumab improves and stabilizes beta cell function in antibody-positive high-risk individuals. Science Translational Medicine 03 Mar 2021:Vol. 13, Issue 583, eabc8980.

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