La forma dell’oro: al Building espone Jan Fabre


Jan Fabre per il ciclo “La forma dell’oro” al Building di Milano: fino al 4 giugno in esposizione l’opera A Devilish Ashtray

Jan Fabre per il ciclo "La forma dell'oro" al Building di Milano: fino al 4 giugno in esposizione l'opera A Devilish Ashtray

BUILDINGBOX presenta fino al 4 giugno 2021 un’opera di Jan Fabre (Anversa, 1958), quinto artista de La forma dell’oro, progetto espositivo annuale, a cura di Melania Rossi, che indaga l’utilizzo dell’oro nella ricerca artistica contemporanea attraverso le opere di dodici artisti invitati a misurarsi con il tema prescelto. Le installazioni sono visibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7 dalla vetrina di via Monte di Pietà 23 a Milano.

Jan Fabre ha realizzato innumerevoli autoritratti nel corso della sua carriera, in forma di sculture, disegni, film-performance. Nel solco della tradizione storico artistica, seguendo le orme dei maestri di epoca medioevale, rinascimentale e barocca, l’artista usa sé stesso come prima fonte di studio anatomico e psicologico. La rappresentazione dell’uomo, nell’opera di Fabre, aderisce al racconto della condizione dell’artista come metafora della condizione umana, tesa tra finitezza ed eternità. Il suo autoritratto a grandezza naturale dal titolo Je suis une erreur, è una scultura in bronzo che piange e ride al contempo, esprimendo così il paradosso della vita umana lontano da qualsiasi forma di cinismo esistenziale. L’artista si espone e fa da specchio all’osservatore.

I am a mistake

Because I want what I can’t have

(lights a cigarette)

I am faithful

to the pleasure

that is trying to kill me”.

Queste parole sono tratte dal monologo con cui Jan Fabre, nel 2007, metteva in scena il suo manifesto di fede ostinata e contraria, I am a mistake. L’uomo, l’artista, consapevole del proprio destino, loda la sigaretta e l’autodistruzione che ne deriva, affermando apertamente di essere lui stesso un errore, perché non rispetta le regole e pretende l’immortalità.

Nell’iconografia fiamminga della natura morta e della vanitas, la pipa appare a indicare la fugacità della vita, il suo essere destinata al dissolvimento, proprio come il fumo, come il tabacco che brucia e si consuma scandendo il tempo. Anche la vanitas dell’immancabile sigaretta di Fabre, come tutte le vanitas, è memento mori, ma è soprattutto fascino irresistibile di ciò che svanisce per mutare forma continuamente.

Devilish Ashtray, l’opera di Jan Fabre per il ciclo La forma dell’oro, è un autoritratto con corna da diavolo, la bocca spalancata in una linguaccia beffarda, pronta a ricevere il mozzicone della sigaretta. Fabre dichiara uno spirito metamorfico e ribelle che supera limiti, che vuole rendere possibile l’impossibile a ogni costo, che con genio prometeico fa esplodere la guerra in paradiso. In altre parole, l’artista cede la sua anima all’arte e accetta di pagarne il prezzo. Il diavolo, del resto, è l’inventore della metamorfosi, e il daimon, a metà tra umano e divino, è per la filosofia greca l’intermediario tra le due dimensioni.

La foglia oro conferisce all’opera un’aura di spiritualità che si ricollega allo studio dei maestri del passato; il colore usato nei dipinti medievali e rinascimentali per rappresentare il sovra-umano diventa, per l’artista contemporaneo, materiale scultoreo per il suo autoritratto.

Il Fabre-diavolo sovverte le regole, con l’oro celebra l’anarchia tutta umana dell’arte e della vita.

I am a mistake and I love it”, direbbe l’artista.

La forma dell’oro

BUILDINGBOX dedica la stagione 2021 al progetto La forma dell’oro, un’esposizione in dodici appuntamenti con cadenza mensile, a cura di Melania Rossi.

La mostra vuole dare una panoramica sull’utilizzo dell’oro nella ricerca artistica contemporanea, attraverso dodici installazioni di artisti che alludono al “re dei metalli” con modalità e pratiche diverse.

Definito “carne degli dei” dagli antichi egizi, oggetto simbolo della discordia nel mito greco, l’oro diviene nell’interpretazione cristiana sia emblema della manifestazione divina, sia incarnazione della vanità terrena e dei vizi umani. Un fatto è certo: nel corso dei secoli, questo elemento naturale ha conservato un alto valore espressivo tanto nella sfera del sacro, quanto in quella del profano. Nella tradizione rappresentativa, l’oro è definito da una polifonia di metafore che vanno dal divino al demoniaco, dallo spirituale al materiale, dalla perfezione alla corruzione. Lo spettro della sua potenza simbolica è tale da arrivare persino ad alludere all’assenza, alla negazione dello spazio-tempo e della gravità.

I pittori d’epoca medievale e del primo Rinascimento se ne servivano per rappresentare ciò che eccede la realtà materiale e supera l’uomo. L’aura mistica propria di tecniche antiche quali il fondo oro, il lustro e la doratura rappresentano l’imprescindibile punto di partenza per tutti gli artisti che ancora oggi scelgono di inserire quest’elemento nella loro prassi artistica.

Che tipo di fascino esercita l’oro nel mondo odierno? A quali scopi se ne serve l’arte contemporanea?

Tutti lucenti nella loro doratura, le opere e i lavori site-specific degli artisti selezionati da Melania Rossi (in oro vero o falso, oppure in bronzo, ottone, plastica, ceramica, vetro, carta) richiamano inevitabilmente la tradizione storico-artistica, portando al contempo la personale ricerca di ogni autore. Ciascun artista offre infatti un punto di vista diverso sul metallo nobile, osservato con seduzione alchemica o volontà dissacratoria. Alcuni, considerandolo un colore, ne hanno studiato le proprietà pittoriche; altri, considerandolo un materiale plastico, ne hanno indagato le potenzialità scultoree. Altri artisti, invece, hanno operato dei ribaltamenti di senso rispetto ai significati mitici, filosofici e letterari assunti dall’oro lungo le epoche.

La forma dell’oro è dunque una mostra fatta di eccezioni: qui, è tutto oro quel che luccica.

La mostra si compone di un’installazione al mese per dodici mesi, visibile 7 giorni su 7, 24 ore su 24, nella vetrina BUILDINGBOX. Un confronto senza pause tra diversi ed eccellenti modi di intendere l’aurum, metallo nobile, eterno e incorruttibile nella sua natura più pura.

Cenni biografici

Con una carriera che dura da quarant’anni, Jan Fabre (Anversa, 1958) è considerato una delle figure più innovative nel panorama artistico internazionale. Come artista visivo e autore teatrale, crea un’atmosfera intensamente personale con le sue regole, leggi, personaggi, simboli e motivi. Curioso per natura e influenzato dai manoscritti dell’entomologo Jean-Henri Fabre (1823-1915), Jan Fabre è rimasto affascinato in giovane età dal mondo degli insetti e altre piccole creature. Alla fine degli anni Settanta, mentre studiava all’Istituto Municipale di Arti Decorative e all’Accademia Reale di Belle Arti di Anversa, iniziò a esplorare modi per incorporare il corpo umano nella sua ricerca. Il linguaggio visivo di Jan Fabre esiste all’interno di un mondo idiosincratico, popolato da corpi che definiscono l’esistenza naturale attraverso un atto di equilibrio permanente sulla linea sottile tra la vita e la morte. La metamorfosi e la costante interazione tra animale-umano e uomo-animale sono concetti chiave nell’eredità mentale di Fabre. Il suo universo spirituale e fisico si spiega all’interno dei suoi testi letterari e delle sue note notturne, o dei cosiddetti “diari notturni”.

Come artista della consilienza, unisce performance art e teatro; Jan Fabre ha cambiato l’idioma teatrale portando in scena tempo reale e azione reale. Dopo la sua storica produzione di otto ore This Is Theatre Like It Was to Be Expected and Foreseen (1982) e The Power of Theatrical Madness di quattro ore (1984), ha continuato a esplorare un territorio inesplorato con Mount Olympus. To Glorify the Cult of Tragedy (2015), una performance di ventiquattro ore. Con questo spettacolo monumentale ed epico, ha riscritto la storia del teatro in varie città internazionali.

Jan Fabre gode di riconoscimenti in tutto il mondo grazie a lavori come The Man Who Measures the Clouds (1998), che può essere visto in vari siti (SMAK, Gand, deSingel, Anversa, Aeroporto di Bruxelles, 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, MADRE, Napoli), il castello di Tivoli a Mechelen (1990) e opere pubbliche permanenti in luoghi di rilievo, tra cui Heaven of Delight (2002) al Palazzo Reale di Bruxelles, The Gaze Within (The Hour Blue) (2011-2013) nella scala reale al Royal Museum of Fine Arts del Belgio, l’installazione di The Man Who Bears the Cross (2015) nella Cattedrale di Nostra Signora ad Anversa e, nella stessa città, le tre pale d’altare dopo Rubens, Jordaens e Van Dyck nella chiesa di St. Augustine / AMUZ. Come Heaven of Delight, anche queste pale d’altare sono realizzate con le corazze di scarabeo gioiello. Jan Fabre dipinge con la luce sostituendo la tradizionale pittura a olio con uno dei materiali più resistenti in natura. Le due famose serie di pannelli a mosaico in cui affronta la controversa storia del Belgio, Tribute to Hieronymus Bosch in Congo (2011-2013) e Tribute to Belgian Congo (2010-2013), sono state esposte per la prima volta per intero al Pinchuk Art Centre di Kiev (2013). Successivamente sono stati esposte al Palais des Beaux-Arts di Lille (2013) e a ‘s-Hertogenbosch in onore del 500° anniversario di Hieronymus Bosch (2016).

BUILDING

via Monte di Pietà 23, Milano

www.building-gallery.com

Follow on

www.instagram.com/building.gallery

www.facebook.com/building.gallery

www.twitter.com/BuildingGallery

vimeo.com/user91292191