Per il fisioterapista di comunità servono delle norme: parla Melania Salina, vicepresidente Commissione d’Albo Nazionale Fisioterapisti
Le esigenze e i bisogni di salute dei cittadini sono cambiati negli ultimi anni, e la pandemia ha messo più in evidenza la carenza dei servizi sul territorio a favore di una visione spiccatamente ospedalocentrica. Ma per prevenire, rispondere alle cronicità e gestire al meglio i costi che gravano sul Ssn c’è bisogno di un cambio di passo importante. La salute deve essere di prossimità per dare risposte rapide. In questo senso anche l’approccio fisioterapico deve essere svolto secondo una logica di salute di comunità. Nasce da qui il ‘fisioterapista di comunità’. Per affrontare tutte le sfaccettature di questo emergente tema l’agenzia di stampa Dire (www.dire.it) ha interpellato la dottoressa Melania Salina, vicepresidente Commissione d’Albo Nazionale Fisioterapisti.
– Chi è il fisioterapista di comunità? E come si inserisce all’interno della medicina del territorio di cui abbiamo sentito molto parlare in tempi di pandemia?
“Il tema e il ruolo del fisioterapista di comunità sono al centro del dibattito in questo momento storico. E’ sotto gli occhi di tutti che è necessario rinforzare e implementare i servizi territoriali. La pandemia ci deve avere insegnato qualcosa. Il fisioterapista, accanto agli altri professionisti delle cure primarie nel frattempo si stanno attrezzando per rispondere ai bisogni di salute emergenti delle persone. Ecco perché il tema delle comunità torna in maniera importante all’interno dei sistemi sanitari. Abbiamo compreso come le prestazioni non possano essere erogate solo dentro l’ospedale, ecco perché bisogna strutturare dei servizi sempre più capillari sul territorio. Bisogna fare ‘salute a chilometro zero’ questo è il nostro slogan”.
– Qual è nella pratica il ruolo di questa nuova figura e in che modo si differenzia dal fisioterapista ‘tradizionale’? Inoltre in quali contesti territoriali regionali è già attiva questa figura?
“Chiariamo intanto chi è il fisioterapista. Si tratta di quel professionista sanitario che ti aiuta a recuperare: abilità, autonomia, forza muscolare, capacità di partecipare alla vita normale nonostante una patologia o a seguito di un evento acuto che abbia determinato un periodo di invalidità che purtroppo non è sempre transitoria ma può durare nel tempo. La funzione del fisioterapista, nella gestione delle malattie croniche, è elevatissima. Non amo molto il concetto di ‘cronico’ perché è insito nella nostra professione l’aspetto contrario, cioè quello del recupero, della gestione della patologia. Gli stessi pazienti hanno insite delle leve che, se attivate in modo opportuno, consentono di ribaltare alcune situazioni severe. Ecco che il fisioterapista è anche un ‘facilitatore’, ossia quella figura che trasferisce al paziente strumenti che lo aiutano a riconquistare l’autonomia persa. Per questo pensiamo che i luoghi dove la gente vive e si relaziona siano quelli migliori per portare il nostro intervento in una logica di prevenzione e per evitare l’ospedalizzazione. Ci sono già delle esperienze importanti in due regioni: la Toscana e il Friuli- Venezia Giulia con alcune connotazioni differenti. E’ chiaro che ogni Regione declina in maniera peculiare l’intervento perché le comunità non sono le stesse. Lavorare in una grande città è chiaramente molto diverso che svolgere l’attività di fisioterapista di comunità in una zona di montagna o rurale. Le caratterizzazioni sono un valore aggiunto. Il futuro? La previsione è che il fisioterapista di comunità venga normato, posso dire però che alcune leggi regionali prevedono questo tipo di intervento. Qualcosa sta nascendo anche in Puglia proprio a seguito della pandemia. Direi che siamo molto contenti di queste prime sperimentazioni sul campo”.
– Riceve una formazione ‘ad hoc’? O state pensando a dei corsi specifici come Albo?
“E’ evidente che questo tipo di competenze esigono una formazione avanzata. Una piccola indiscrezione, ma siamo contenti di condividerla in questa sede, è che a breve nascerà il primo Master in ‘Fisioterapia di comunità’ una formazione universitaria post triennale che aggiunge un anno di studio di approfondimento specifico. Speriamo che in aggiunta a questo primo master ne nascano degli altri. Confido che si crei una rete tra i vari master affinché si implementi un sistema di conoscenze e di scambi di esperienze”.
– Tale professionalità che impatto produce sulla salute del cittadino? E in che modo incide, in termini di risparmio, sui costi sostenuti dal Ssn?
“Questo è un altro tema per noi rilevante. La Toscana che è stata la prima regione a sviluppare una sanità di comunità, di ‘iniziativa’, insomma come dicevo a ‘chilometro zero’. Una sanità che non aspetta che si manifesti un disturbo ma che è in grado di anticiparlo attraverso la prevenzione e un attento monitoraggio degli stili di vita, proposte di attività motorie, di sviluppo di competenze di autogestione affidate direttamente al paziente. La Toscana che ha standardizzato questo modello, ispirandosi a quello già promosso dall’Oms da oltre 20 anni, ha ottenuto così una riduzione della spesa sanitaria notevole. Pensiamo ai costi generati da una caduta dell’anziano che esita in una frattura di femore e che produce, tra l’intervento e la riabilitazione, una spesa per il Ssn pari a circa 20mila euro. Da ciò, moltiplicato per il numero totale di fratture che ogni anno ci sono, si comprende il costo salatissimo di tutto questo. Al contrario se agiamo prima, attraverso un intervento di ginnastica mirata, la riabilitazione supervisionata da un fisioterapista, possiamo risparmiare molti milioni di euro che possono essere reinvestiti in altri settori. Insomma con piccoli interventi di prevenzione possiamo migliorare la qualità della vita delle persone e risparmiare molto denaro”.
– Il Fisioterapista di comunità in che modo può entrare in gioco nel Team di Cure Primarie?
“Si è sentito parlare in questo periodo pandemico molto dell’infermiere di comunità, che è un altro perno fondamentale all’interno di un modello di sanità che va verso i cittadini. E’ evidente che da un lato ci sono i bisogni fisioterapici e riabilitativi legati alla sfera dell’autonomia delle persone e dall’altra parte c’è tutto il tema del bisogno assistenziale. L’altra figura cardine di un team di Cure primarie molto ben strutturato negli altri Paesi europei è il medico di medicina generale. Perché è così importante questo team? Perché offre la prima riposta di cure, e il paziente solo se necessario verrà inviato allo specialista, che quindi arriva in seconda battuta. Le cure primarie in Italia purtroppo risentono di un modello vecchio di 50 anni, siamo indietro anche culturalmente. All’interno del team sul territorio partecipano, oltre al mmg, all’infermiere, anche naturalmente il fisioterapista e l’assistente sociale. E’ fondamentale che nelle comunità, nei quartieri o in montagna si creino questi team ‘mobili’ che spostandosi vanno a prendere in carico il paziente. Ecco che ritorna il concetto di salute a ‘chilometro zero’. Il sistema sanitario italiano deve capire che è necessaria questa riforma delle cure primarie, oppure posso dire che da questa pandemia non avremo tratto alcuna lezione”.