Un nuovo studio scientifico ha indagato come geni raggruppati in porzioni relativamente ridotte del genoma facilitano l’adattamento delle specie
I progressi nelle tecniche di sequenziamento e analisi dell’intero genoma negli ultimi anni hanno coinvolto tra gli altri lo studio dell’adattamento evolutivo, cioè il processo con cui l’evoluzione produce organismi ben adattati, per esempio alle condizioni ambientali in cui vivono. Carmelo Fruciano dell’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irbim), Paolo Franchini dell’University of Konstanz in Germania e Julia Jones dell’University College Dublin in Irlanda hanno curato come guest editor una edizione speciale della rivista Journal of Evolutionary Biology per fare il punto della situazione degli studi in questo settore.
“Nel nostro articolo abbiamo affrontato grandi domande in attesa di risposte come, per esempio, se geni raggruppati in porzioni relativamente ridotte del genoma facilitino l’adattamento o se, invece, i geni che sono responsabili dell’adattamento siano localizzati in tutto il genoma senza particolari raggruppamenti”, spiega Fruciano. “Oppure se nel processo di adattamento sia più importante l’evoluzione delle sequenze di DNA che codificano proteine o, viceversa, le sequenze di DNA che regolano l’espressione genica, cioè quella parte del DNA che definisce, in ultima analisi, quanta proteina venga prodotta a partire da una certa sequenza”.
L’edizione speciale contiene l’articolo dei curatori e nove contributi di autori provenienti da una trentina tra università ed enti di ricerca di tutto il mondo. Due di questi si focalizzano sul parallelismo: l’adattamento a uno stesso ambiente di due o più popolazioni della stessa specie, per esempio, è dovuto agli stessi geni o a geni diversi? “Un articolo sui salmoni del nord-est Europa e uno su delle formiche della Guyana Francese mostrano un limitato parallelismo”, racconta il ricercatore Cnr-Irbim. “Ovvero, differenti popolazioni che si adattano ad ambienti simili, ad esempio dal punto di vista climatico, utilizzano in larga parte geni localizzati in differenti regioni del genoma. Un risultato finale analogo può quindi essere ottenuto usando geni diversi”.
Un gruppo di ricercatori indiani ha irradiato con raggi UV Escherichia coli, un batterio comune presente anche nell’intestino umano dall’alto tasso riproduttivo, di modo che sviluppassero gradualmente una resistenza ai raggi stessi e hanno verificato che i geni che mutavano erano diversi a seconda della fase dello sviluppo del batterio scelta per il trattamento. “Un gruppo canadese ha studiato l’evoluzione di alcuni coronavirus, incluso il SARS-CoV-2, osservando come il numero di posizioni (chiamate siti) in rapido cambiamento funzionale nelle sequenze genetiche, dopo il salto di specie verso l’uomo, tenda a diminuire con gli anni”, prosegue Fruciano. “Questo suggerisce che non appena colonizzata una nuova specie, i coronavirus si diversificano rapidamente in tante direzioni producendo diverse varianti, ma con il tempo la selezione naturale tende a favorire un numero più ridotto tra tutte queste “strade” esplorate dal processo evolutivo”.
Tra gli altri studi, uno ha identificato tra le varie popolazioni nella quercia da sughero, nel bacino del Mediterraneo, una leggera variazione genetica che forma un gradiente lungo la direzione est-ovest, in larga parte connessa a variazioni climatiche, in particolare di temperatura. Altri due studi sulla dafnia, piccolo e comune crostaceo d’acqua dolce, e su una specie di pesce adattata a vivere in sorgenti con presenza di acido solfidrico, si sono occupati di espressione genetica, cioè che certi geni vengano attivati, e in che misura, per produrre proteine. “Sta diventando sempre più chiaro come per adattarsi rapidamente a nuove condizioni spesso sia evolutivamente più facile cambiare quante copie di una proteina vengano prodotte, piuttosto che la sequenza della proteina stessa”, commenta il ricercatore Cnr-Irbim. “Uno studio scozzese ha identificato i metodi più performanti per individuare quali geni e regioni del genoma sono più influenzati dalla selezione naturale. Un gruppo giapponese passa invece in rassegna le conoscenze riguardo un insieme di geni chiamati opsine nei pesci non ossei, tra cui squali, razze e lamprede: ogni specie vede in maniera diversa a seconda della combinazione di opsine che possiede”, conclude Fruciano.
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