Tumori vie urinarie: meno recidive con l’immunoterapia


L’immunoterapia dopo la chirurgia può aiutare a evitare le ricadute nei tumori delle vie urinarie secondo nuove ricerche scientifiche

Un'analisi comparativa ha evidenziato che nove FANS, farmaci antinfiammatori non steroidei, presi in esame incidono sulla funzione renale

Un trattamento di immunoterapia, somministrato dopo l’intervento per rimuovere il tumore delle vie urinarie, aiuta a evitare le ricadute. Lo mostrano i risultati, appena pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine, di uno studio statunitense che ha coinvolto più di 700 pazienti con carcinoma uroteliale muscolo-invasivo sottoposti a intervento chirurgico con rimozione dell’organo colpito. Il carcinoma uroteliale muscolo-invasivo è un tumore che invade anche gli strati muscolari e per questo è considerato avanzato.

“Il trattamento standard per questi tumori prevede l’intervento chirurgico, ma, nonostante la chirurgia, circa la metà dei pazienti va incontro a una ricaduta” scrivono gli autori dell’articolo, spiegando perché sono necessarie nuove strategie più efficaci da affiancare alla rimozione della massa tumorale.

I ricercatori hanno quindi provato a somministrare a metà dei pazienti coinvolti nello studio, dopo l’intervento chirurgico, il farmaco immunoterapico nivolumab ogni due settimane per un intero anno, mentre all’altra metà è stato dato un placebo. I risultati hanno mostrato che la durata media della sopravvivenza libera da malattia è raddoppiata nel gruppo a cui è stata data l’immunoterapia, superando i 20 mesi rispetto ai 10 del gruppo placebo. La cura ha anche ridotto il rischio di metastasi a distanza.

Nel gruppo in terapia con il farmaco immunoterapico si sono verificati più effetti collaterali rispetto al gruppo placebo, ma tutti in linea con quanto ci si aspetta dall’uso di nivolumab. Da non trascurare poi il fatto che la qualità della vita non è peggiorata nei pazienti trattati con immunoterapia rispetto a quelli del gruppo placebo.

“Alcune analisi aggiuntive suggeriscono che l’effetto del trattamento potrebbe essere anche maggiore in alcuni sottogruppi di pazienti, ma al momento si tratta solo di ipotesi che devono essere verificate con studi più mirati” spiegano gli autori, che ora sperano che la terapia sia approvata dagli enti regolatori statunitensi. Dopo tale approvazione, in genere anche l’Europa (e con essa l’Italia) tende a recepire le nuove indicazioni nel giro di qualche mese.

FONTE: AIRC