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Dopo l’infarto dose di beta-bloccanti va ridotta

Beta-bloccanti a lungo termine post-infarto miocardico: questa pratica prescrittiva consolidata è ora messa in discussione

Il vantaggio nel continuare l’uso dei beta-bloccanti oltre 1 anno dopo un infarto miocardico acuto viene dall’impiego di una dose inferiore

Se c’è un vantaggio nel continuare l’uso dei beta-bloccanti oltre 1 anno dopo un infarto miocardico (IM) acuto, questo potrebbe venire con l’impiego di una dose inferiore. E per i pazienti con disfunzione del ventricolo sinistro (LV) dopo un IM senza slivellamento del tratto ST (STEMI), gli antagonisti recettoriali dei mineralcorticoidi (MRA), che hanno un beneficio comprovato in quest’ambito, hanno continuato a essere sottoutilizzati. Sono le conclusioni di due studi pubblicati online sul “Journal of the American Heart Association”.

Tali studi esplorano l’uso di due tra le più “anziane” classi di farmaci impiegate in pazienti che hanno avuto un’IM e sollevano interrogativi su dove tali classi si inseriscano nei piani di trattamento dell’era attuale, dopo decenni di progressi nelle cure.

1) Beta-bloccanti, questioni aperte: dosaggio e durata del trattamento
I beta-bloccanti sono una terapia post-IM raccomandata dalle linee guida sulla base dei risultati degli studi pubblicati negli anni ’70 e ’80, prima che molti dei trattamenti che hanno portato a grandi miglioramenti negli esiti dopo un IM divenissero disponibili o popolari nel corso degli anni – come l’uso diffuso di aspirina, angioplastica acuta/trombolisi e statine – affermano gli autori dell’analisi sui beta-bloccanti, guidati da Jeffrey Goldberger, dell’University of Miami Miller School of Medicine.

Ciò ha portato chiedersi quali beta-bloccanti rimangano utili nella pratica clinica contemporanea. Goldberger e colleghi pensano che siano ancora utili, indicando i principali risultati del registro OBTAIN pubblicato nel 2015, che ha dimostrato anche come l’uso di dosi più basse offra risultati simili a quelli ottenuti con dosi più elevate.

A parte le domande sul dosaggio, rimane l’incertezza relativa alla quantità di tempo in cui i pazienti debbano essere trattati con beta-bloccanti dopo un IM, dato che gli studi originali che valutavano questi trattamenti variavano di durata.

1a) Una ‘landmark analysis’ del registro OBTAIN
Goldberger e colleghi hanno deciso di affrontare alcuni di questi problemi in una nuova analisi di riferimento (landmark analysis) del registro OBTAIN, che si è focalizzata su 3.004 pazienti (età media 63-64 anni; circa due terzi uomini) che erano sopravvissuti per un anno dopo un IM e di cui erano disponibili informazioni sulla dose di beta-bloccante a 1 anno.

La dose è stata stratificata in base a come si allineava alle dosi target utilizzate negli studi randomizzati: > 0 a 12,5%, > 12,5% a 25%, > 25% a 50% o > 50% delle dosi target.
Non c’è stata differenza di mortalità lungo un follow-up mediano di 1,05 anni quando si è effettuato un confronto tra qualsiasi uso di beta-bloccanti e nessun impiego degli stessi (HR aggiustato 0,806; CI 95% 0,485-1,340).

1b) Tra i dosaggi un intervallo con il più basso tasso di mortalità
La dose era rilevante, tuttavia, avendo visto il più basso tasso di mortalità nei pazienti che assumevano beta-bloccanti nell’intervallo > 12,5% a 25% della dose target.
Rispetto a tale gruppo, in un’analisi per punteggio di propensione, i tassi di mortalità erano più elevati in coloro che non assumevano beta-bloccanti (HR 1,997) e in quelli che assumevano una dose pari o inferiore al 12,5% della dose target (HR 1,817) o nel range > 25% a 50% della dose target (HR 1,764).

Il rischio non era significativamente più elevato nei pazienti che ricevevano una dose > 50% del target. I risultati «mostrano che forse c’è un vantaggio» nell’estendere la terapia con beta-bloccante oltre 1 anno dopo l’IM, secondo Goldberger e colleghi. «Non è chiaro al 100%, ma se c’è un vantaggio, l’abbiamo trovato solo in quel gruppo di dosaggio».

1c) Una conclusione operativa
Questi dati sono informativi, ma dovrebbero essere replicati in ulteriori studi del Registro di sistema o confermati in studi randomizzati prima di formare la base per le raccomandazioni pratiche, specificano gli autori, aggiungendo che sono necessarie ulteriori ricerche per definire anche il dosaggio ottimale.

In ogni caso, Goldberger e colleghi dichiarano di credere fermamente che «tutti coloro che hanno un attacco di cuore dovrebbero essere trattati con un beta-bloccante almeno con una dose moderata», che equivarrebbe al 25% delle dosi target utilizzate negli studi clinici.

«Se si raggiunge almeno quella dose, si ottiene la maggior parte del beneficio dei beta-bloccanti» aggiungono. Inoltre, concludono, quando si pensa a un trattamento a lungo termine, i medici dovrebbero considerare anche altri fattori tra i quali: come il regime sia tollerato dal paziente, se siano presenti altre condizioni che rientrano tra le indicazioni per la terapia con beta-bloccanti, quali siano le preferenze del paziente.

2) Il problema del sottoutilizzo degli MRA
Come i beta-bloccanti, anche gli MRA sono supportati da forti raccomandazioni delle linee guida per l’uso in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra (LV) – ossia frazione d’eiezione LV [LVEF] del 40% o inferiore) dopo IM più insufficienza cardiaca (HF) o diabete. Tale consiglio si basa principalmente sul beneficio nella mortalità osservata nello studio EPHESUS del 2003 sull’eplerenone.

Ricerche precedenti hanno dimostrato, tuttavia, che la maggior parte dei pazienti eleggibili agli MRA non sta ottenendo tali farmaci. Aneddoticamente, scrivono gli estensori dell’analisi sugli MRA, di cui è autore senior Ricky Turgeon, dell’University of British Columbia, a Vancouver (Canada), i medici vogliono ridurre al minimo il carico di pillole al momento della dimissione, con l’intenzione di prescrivere gli MRA in un secondo momento.

Anche le preoccupazioni sull’ipotensione, la disfunzione renale e l’iperkaliemia durante il ricovero per STEMI potrebbero svolgere un ruolo, aggiungono.

2a) Situazione prescrittiva solo in lieve miglioramento negli ultimi anni
Turgeon e colleghi, guidati da Eric Wong, dello stesso Ateneo, hanno inteso verificare se il sottoutilizzo degli MRA fosse ancora un problema. Per fare ciò, hanno esaminato i dati del database STEMI della Vancouver Coastal Health Authority, basato sulla popolazione e collegato alle cartelle cliniche ambulatoriali locali dei pazienti trattati tra il 2007 e il 2018.

Su 2.691 pazienti con STEMI, 317 (12%) sono stati ritenuti ammissibili agli MRA sulla base dei criteri EPHESUS (LVEF pari o inferiore al 40%, HF clinica o diabete e nessuna disfunzione renale dipendente dalla dialisi).

Di questi, a soli 70 (22%) è stato prescritto un MRA alla dimissione. Inoltre, dei pazienti idonei che non hanno ricevuto un MRA prima della dimissione, solo il 9,5% ha ricevuto una prescrizione per una sola volta entro 3 mesi. Nel complesso, scrivono Turgeon e colleghi, solamente un quarto circa dei pazienti idonei ha ricevuto un MRA entro 3 mesi dallo STEMI.

I ricercatori hanno anche esaminato i fattori associati alla prescrizione degli MRA alla dimissione e hanno scoperto che l’uso era più elevato quando l’LVEF era peggiore (OR 1,55 per diminuzione del 5% della LVEF; 95% CI 1,26-1,90) e se il trattamento riguardava gli anni più recenti (OR 1,23 all’anno; CI 95% 1,11-1,37).

Ciò mostra un miglioramento nel tempo, ma tuttora solamente una metà circa dei pazienti eleggibili al trattamento ha ricevuto un MRA prima della dimissione nell’ultimo anno del periodo di studio, osservano Turgeon e coautori.

Il sottoutilizzo degli MRA,, sottolineano, stato visto anche nello studio PARADISE-MI, presentato al recente congresso dell’American College of Cardiology 2021 (ACC.21), che ha confrontato sacubitril/valsartan con l’ACE-inibitore ramipril dopo IM acuto, e in cui soltanto il 42% circa dei pazienti ha ricevuto un MRA.

2c) L’attrazione per il composto più nuovo
«Questo indica davvero il fatto che prima soffermarci a pensare ad altre terapie più nuove, che sono piuttosto costose e per le quali l’accesso può essere più difficile, dovremmo piuttosto ottimizzare ancora l’uso di farmaci come gli MRA, che possono davvero aiutare a migliorare gli esiti».

Legando i risultati insieme i concetti emersi dalle due analisi, Ricky Turgeon e colleghi affermano che «quando otteniamo terapie più nuove, da un lato non dobbiamo dimenticare i vecchi trattamenti e dall’altra occorre capire come tutti questi farmaci siano interrelati e interagiscano insieme».

3) Per gli editorialisti, due farmacoterapie che influenzano ancora la prognosi
Questi due studi aiutano a colmare il divario che si apre quando si tratta di domande sul fatto che terapie più vecchie come beta-bloccanti e MRA influenzino ancora la prognosi dopo che sono stati fatti così tanti miglioramenti nel trattamento dell’IM da quando sono stati condotti gli studi cardine, scrivono in un editoriale di commento Tobias Schupp, dell’Università di Heidelberg, Mannheim (Germania), e colleghi.

3a) Per i beta-bloccanti necessari studi di dosaggio per l’HFpEF
I risultati del beta-bloccante, notano, sono coerenti con quelli di un’analisi del registro SWEDEHEART che mostra come le dosi di beta-bloccante pari o superiori al 50% delle dosi target non erano associate a migliori libertà dal reinfarto o mortalità per tutte le cause.

Ulteriori ricerche «saranno necessarie per fornire dati affidabili sulla migliore durata della terapia con beta-bloccante, specialmente nei pazienti con HF con frazione di eiezione preservata (HFpEF)», scrivono Schupp e colleghi.

«Le indicazioni comuni per le farmacoterapie per HF si basano sulla valutazione della LVEF e dei sintomi dei pazienti. Tuttavia, ci si può chiedere se questo sia ancora appropriato nel paziente con HF complessa con diverse eziologie sottostanti e trattamenti multimodali» aggiungono.

3b) MRA, necessità di educazione clinica su indicazioni e uso ottimale
Per quanto riguarda gli MRA, gli editorialisti sottolineano che non solo sono stati osservati bassi tassi di prescrizione in studi precedenti su popolazioni di pazienti con HF, ma c’è inoltre un alto tasso di interruzione anche quando i pazienti vengono avviati su tale terapia.

L’incoerenza del trattamento MRA solleva interrogativi sull’opportunità di studiarne l’impatto sugli esiti con un approccio dicotomizzato (assunzione rispetto a non assunzione), sottolineano.

«Pertanto, la mancanza di dati relativi agli endpoint nello studio di Wong e colleghi non dovrebbe essere considerata una limitazione importante. Al contrario, sottolinea la mancanza di un’erogazione ottimale e di un adattamento delle linee guida nella pratica clinica quotidiana, nonché dell’impostazione di uno studio clinico» proseguono.

Lo studio «sottolinea la necessità di migliorare ulteriormente l’educazione clinica del personale medico per quanto riguarda le indicazioni e l’uso ottimale degli MRA, insieme al monitoraggio continuo e appropriato della funzione renale e dei livelli di potassio sierico» sostengono Schupp e colleghi, aggiungendo che l’uso abituale degli MRA può essere particolarmente importante in alcuni sottogruppi ad alto rischio, come i pazienti con obesità, diabete e sintomi avanzati.

1) Goldberger JJ, Subačius H, Marroquin OC, et al. One-Year Landmark Analysis of the Effect of Beta-Blocker Dose on Survival After Acute Myocardial Infarction. J Am Heart Assoc. 2021 Jul 6. doi: 10.1161/JAHA.120.019017. Epub ahead of print. 
leggi

2) Wong EC, Fordyce CB, Wong G, et al. Predictors of the Use of Mineralocorticoid Receptor Antagonists in Patients With Left Ventricular Dysfunction Post-ST-Segment-Elevation Myocardial Infarction. J Am Heart Assoc. 2021 Jul 6. doi: 10.1161/JAHA.120.019167. Epub ahead of print. 
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3) Schupp T, Akin I, Behnes M. Pharmacological Treatment Following Myocardial Infarction: How Large Is the Gap Between Guideline Recommendations and Routine Clinical Care? J Am Heart Assoc. 2021 Jul 6. doi: 10.1161/JAHA.121.021799. Epub ahead of print. 
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