Afghanistan: dopo il ritorno al potere dei talebani, lontano dai riflettori di Kabul, le donne devono indossare il burqa e non possono uscire di casa da sole
“Tutti gli occhi sono puntati su Kabul in questo momento, dove i talebani, in cerca di riconoscimento politico internazionale, non stanno ancora facendo nulla. Testimonianze che abbiamo ricevuto ci dicono però che in provincia stanno già imponendo alle donne di indossare il burqa, impedendogli di andare a lavorare e a scuola“. A parlare alla Dire (www.dire.it), è Laura Quagliuolo, una delle fondatrici del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda), un’organizzazione che dal 1999 si occupa di portare avanti progetti di solidarietà a favore delle donne del Paese asiatico.
L’organizzazione lavora in partnership con sette grandi organizzazioni afghane, tra le quali la Revolutionary Association of Women of Afghanistan (Rawa) e la Humanitarian Association of Women and Children of Afghanistan (Hawca). Sono proprie le attiviste che animano queste realtà a fornire a Quagliuolo e a Cisda, “nonostante le difficoltà tecniche”, le prime testimonianze dal Paese appena tornato sotto il controllo delle milizie di ispirazione jihadista dei talebani.
I guerriglieri hanno fatto ingresso nella capitale Kabul domenica, dopo aver conquistato quasi tutto il Paese, 26 capitali di provincia su un totale di 34, in meno di due settimane. I primi resoconti dalla capitale, anche da parte di ong italiane come Emergency, sembrano indicare che i miliziani non abbiano ancora iniziato ad applicare le rigide leggi islamiche che hanno caratterizzato il periodo in cui hanno avuto il potere, tra il 1996 e il 2001 ma, evidenzia l’attivista, “anche la gestione dei territori rimasti sotto il loro controllo durante i venti anni di occupazione della Nato e dell’esercito degli Stati Uniti, dove le donne adultere venivano lapidate, solo per citare una delle violazioni”.
“L’impressione che ci siamo fatti da quello che ci viene riferito dalle nostre amiche in Afghanistan però – prosegue la co-fondatrice di Cisda – è che i talebani aspetteranno che il circo mediatico di queste ore si spenga, per far applicare le loro leggi e far peggiorare in modo radicale la situazione delle donne“.
Quel che sono in grado di fare le milizie lo si può iniziare a capire anche dai resoconti che a Cisda arrivano dalle province del Paese, lontane dagli occhi della comunità internazionale. “Sappiamo che i talebani appena facevano ingresso nelle città tranquillizzavano i locali, promettendo di non fare nulla in cambio di una resa”, evidenzia Quagliuolo. “Una volta preso il controllo però, facevano uscire i detenuti dalle prigioni, tornavano a imporre alle donne di coprirsi con il burqa o di non andare a lavoro, oltre a uccidere i soldati dell’esercito regolare rimasti isolati”, aggiunge.
La prospettiva per il prossimo futuro sembra essere nera, peggiore di un passato recente fatto di problemi e questioni irrisolte, per le donne del Paese, ma anche di oggettivi avanzamenti. “In Afghanistan continua la violenza domestica, con i dati tra i peggiori del mondo, e poi la poligamia, i matrimoni con le ragazze minori, mentre l’87 per cento delle donne rimane analfabeta“, denuncia Quagliolo. La co-fondatrice di Cisda riconosce però che negli ultimi due decenni le attiviste sono riuscite a “trovare un loro spazio nelle pieghe di quella che è stata la gestione del Paese da parte del governo riconosciuto dalla comunità internazionale”.
Quagliolo parla di un aumento delle possibilità per le donne del Paese, che ha portato alla nascita di progetti come “un’orchestra di ragazze di un orfanotrofio, gestito a Kabul dall’Afghan Child Education and Care Organization (Afceco), che hanno suonato anche in Europa”. La struttura però, continua l’attivista, “riceveva minacce e controlli continui anche durante il governo del presidente Ashraf Ghani. Non sappiamo se le ragazze potranno mai tornare a esibirsi con l’amministrazione che si prospetta”.
Quello che è certo invece, è che al momento le organizzazioni affiliate a Cisda “hanno sospeso i lavori”, fa sapere Laura Quagliuolo, “per paura di essere colpite dai talebani e in attesa di poter tornare a lavorare in modalità che garantiscano la loro sicurezza e quella delle persone che frequentano le loro attività”. Se la maggior parte della attiviste che lavorano con Cisda non ne vuole sapere di lasciare il Paese, altre però, per ragioni diverse, “vogliono fuggire”, denuncia la co-fondatrice di Cisda, che infine lancia un appello: “È necessario istituire dei corridoi umanitari il prima possibile”.