A Lampedusa da maggio sono sbarcate 12.000 persone, spesso intere famiglie: parla Marta Bernardini, coordinatrice del programma Mediterranean Hope
“Sono a Lampedusa da sette anni e mi colpisce una contraddizione: da un lato i migranti, che quando sbarcano spesso parlano inglese o francese e sognano di andare nei paesi europei da cui in passato sono stati colonizzati. Dall’altra, però, c’è la chiusura ermetica dell’Europa, che non vuole capire che questo fenomeno la riguarda”. Marta Bernardini è coordinatrice di Mediterranean Hope, il programma dedicato ai migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Milanese di origine, Bernardini è in Sicilia da sette anni e all’agenzia Dire (www.dire.it) racconta di come gli arrivi siano continui, ma “poco raccontati. C’è silenzio sul tema”.
Da maggio scorso, secondo la responsabile a Lampedusa sono sbarcate circa 12.000 persone, in maggioranza partite da Libia e Tunisia. Ben 6.000 solo a luglio ma partite per lo più dalla Tunisia. Le nazionalità sono le più varie – non solo tunisini, ma anche africani e asiatici – un dato che per Bernardini conferma una volta di più che “le rotte migratorie cambiano”.
Tra i migranti, l’11% sono donne, che spesso portano con sé i figli o sono incinte. La maggior parte dei minori arriva però senza le famiglie. Un altro dato che secondo Bernardini fa riflettere e che tra i tunisini “ci sono interi nuclei famigliari. Questo ci fa capire che in quel paese sta accadendo qualcosa, se intere famiglie scelgono la via del mare portando con sé quel poco che hanno”. La crisi economica, peggiorata dalla pandemia, aveva determinato questo trand già nell’estate scorsa, e forse è anche alla luce di questo che ieri la Commissione europea ha proposto una missione congiunta a Tunisi con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, non appena “il nuovo governo si sarà insediato”.
Marta Bernardini, pur essendo sull’isola da vari anni, sostiene che da ogni sbarco c’è da imparare: “Nessun arrivo è uguale all’altro”, assicura la coordinatrice, che col suo team – dopo i primi controlli medici effettuati da altre ong specializzate – fornisce alle persone appena sbarcate coperte, abiti, acqua e succhi di frutta e, soprattutto, “chiacchierate amichevoli: gli spieghiamo che non siamo lì per interrogarli ma per accoglierli, ci presentiamo e gli chiediamo di raccontarci le loro storie”. E così qualche giorno fa, l’incontro con un ragazzo di 18 anni del Bangladesh: “ci ha colpito- continua Bernardini- perché cercava un telefono per avvisare la mamma che era arrivato e stava bene. Ci ha detto che non la sentiva da tempo”.
C’è poi chi arriva “dai centri di detenzione in Libia e porta i segni delle torture, o ha ferite invisibili: traumi, spossatezza. Spesso si ha la sensazione che molti si fanno forza per resistere fino al molo, poi, appena toccata terra, crollano. In tanti svengono, hanno dei malori, si accasciano. Le donne, se incinte, partoriscono“. Ma purtroppo il reparto maternità sull’isola non c’è più, e questo per la responsabile “la dice lunga anche sulle condizioni di vita su questo piccolo scoglio nel mezzo del Mediterraneo”. Infine, c’è il pensiero a chi non arriva: “Chi sbarca a volte ci chiede notizie di altre barche incontrate durante il viaggio oppure di gruppi che si erano divisi. A volte sappiamo che sono ancora al largo oppure sono stati tratti in salvo e sono a bordo delle navi delle ong. Altre volte, non ne sappiamo nulla”.
La Fcei proprio in questi giorni ha rinnovato con Sant’Egidio e Tavola Valdese un protocollo d’intesa stretto coi ministeri di Esteri e Interno per i Corridoi umanitari: nei prossimi due anni mille profughi arriveranno dal Libano in Italia attraverso canali sicuri. “È stato proprio lavorando a Lampedusa che si è rafforzata in noi l’idea dei corridoi- conclude Bernardini- perché questo modo di raggiungere l’Europa ci ha fatto rabbrividire: non può essere questa l’unica via”.