Il comparto agroalimentare produce il 33% dei gas climalteranti secondo il Centro comune di ricerca, con sede ad Ispra, che collabora con l’UE
Per il periodo 1990-2015, si stima che il comparto agroalimentare abbia contribuito per almeno un terzo alle emissioni di gas climalteranti (Ghg) in atmosfera, quei gas che contribuiscono in misura determinante al surriscaldamento del pianeta. La valutazione è stimata a livello globale: nei Paesi Ue la quota è variabile, si va da un 25 a un 42%.
I dati sono stati diffusi dal “Joint research committee”, il Centro comune di ricerca, con sede ad Ispra, che collabora con la Commissione europea.
Nella definizione di questo nuovo database (denominato Edgar-Food) non sono state prese in considerazione solo le attività strettamente agricole, ma tutte quelle connesse, dalla lavorazione del cibo al suo trasporto fino allo smaltimento in discarica di avanzi e packaging.
La metà delle emissioni globali di Ghg è di anidride carbonica, principalmente prodotta dalla gestione dei terreni e dal consumo di energia. Un terzo è metano, proveniente dal comparto zootecnico e dalla risicoltura, ma anche dalla gestione dei rifiuti. Il restante si divide tra protossido di azoto, proveniente dai fertilizzanti azotati, e gas fluorurati, in percentuali minori ma con un effetto serra fino a 23mila volte superiore alla CO2.
In media, il sistema agroalimentare produce ogni anno 2 tonnellate di anidride carbonica equivalente per persona. Significa che ogni persona, alimentandosi, immette indirettamente in atmosfera gas ad effetto serra equivalenti a percorrere in automobile circa 15mila chilometri, considerando una utilitaria media alimentata a benzina che emette 130 grammi di CO2 al chilometro.
La catena del freddo rappresenta attualmente il 5% delle emissioni globali di gas serra, ma è in rapida crescita e ha ampi margini di aumento, visto che oggi solo una frazione della popolazione mondiale ha un frigorifero in casa o è raggiunta dalla catena del freddo.