Trascrittomica, proteomica, metabolomica e così via: la rivoluzione sulla ricerca per la cura delle malattie genetiche rare ora fa altri passi avanti
“Genoma”, ormai, è una parola piuttosto conosciuta, anche per merito del Progetto Genoma Umano, che 20 anni fa ci ha consegnato la prima bozza della sequenza di lettere che compongono il nostro Dna. Ma se dicessimo “trascrittoma”? Oppure “proteoma” o, ancora, “metaboloma”? Sono parole certo meno familiari, eppure è facile accorgersi che hanno tutte qualcosa in comune e cioè quelle tre letterine finali – oma – che indicano una totalità. Ciascuno di questi termini, dunque, si riferisce all’insieme totale di qualcosa che si può trovare in un tessuto, un organismo o anche una singola cellula. Sono sequenze di Dna per il genoma, trascritti (cioè molecole di Rna, ma vedremo meglio in seguito di cosa si tratta) per il trascrittoma, proteine per il proteoma, metaboliti (piccole molecole coinvolte nelle varie vie biochimiche di una cellula) per il metaboloma. E così via. Le tecniche utilizzate per studiare questi insiemi, invece, prendono il nome di “omiche” (genomica, trascrittomica, proteomica ecc.) e rappresentano una delle avanguardie più promettenti della ricerca biologica, anche nel campo delle malattie genetiche rare.
Uno scompiglio generale
Molte delle malattie genetiche rare delle quali si occupa Fondazione Telethon dipendono da alterazioni di un singolo gene che hanno come conseguenza l’assenza, la carenza o il malfunzionamento della singola proteina codificata da quel gene. Perché allora preoccuparsi di allargare lo sguardo a una totalità di geni o di proteine, anziché limitarsi a studiare quelli di interesse? Potrebbe sembrare un controsenso, ma non è affatto così. Come si dice che “nessun uomo è un’isola”, per suggerire le sue inevitabili e necessarie relazioni con gli altri esseri umani, così dobbiamo considerare che nessuna proteina è un’isola, come non lo è nessun metabolita. «Ogni molecola presente nelle nostre cellule è inserita in una fitta rete di relazioni con altre molecole e guardarle tutte insieme è fondamentale per capire che cosa fa esattamente in condizioni normali e cosa succede quando è alterata o assente». Parola di Matteo Fossati, ricercatore dell’Istituto di neuroscienze del Cnr di Milano, che coordina un progetto di ricerca finanziato da Fondazione Telethon per studiare anche con un approccio di proteomica le basi molecolari della sindrome di Angelman e dell’autismo. «Anche se il gene mutato è uno solo, a livello cellulare si scompiglia tutto», fanno eco Barbara Monti dell’Università di Bologna e Francesco Lasorsa dell’Università di Bari.
Come ricostruire un puzzle 3D
Da più di dieci anni i due cercano di chiarire, anche con progetti finanziati da Telethon, il quadro molecolare del deficit di carrier mitocondriale di aspartato/glutammato AGC1, una rarissima sindrome neurodegenerativa caratterizzata da perdita di mielina, la guaina che riveste le cellule nervose. «Anche questa – proseguono – è una malattia causata da alterazioni in un unico gene, codificante per la proteina AGC1. Per tanto tempo l’abbiamo studiata con tecniche convenzionali che permettono di studiare un singolo gene, una singola proteina, una singola via biochimica, ma poi abbiamo capito che stavamo avanzando troppo lentamente e che avevamo bisogno di un punto di vista diverso. O, meglio, di più punti di vista diversi. Così siamo arrivati alle omiche». Monti e Lasorsa hanno chiesto aiuto a colleghi più esperti sia nell’utilizzo di queste tecniche sia nella gestione e interpretazione dei dati prodotti. «Già, perché servono tante persone con competenze diverse e complementari per andare in profondità su queste malattie e per capire su quali dati conviene concentrare l’attenzione nell’enorme massa di dati prodotti».
Combinando varie omiche tra le quali trascrittomica e metabolomica, Monti e Lasorsa hanno chiarito meglio che le alterazioni del gene AGC1 hanno effetti diversi su cellule diverse del sistema nervoso centrale e in particolare sui neuroni, le cellule responsabili della trasmissione nervosa, e gli oligodendrociti, che producono la mielina nel cervello. «Abbiamo scoperto che in questi due tipi di cellule sono alterate vie metaboliche diverse e ora stiamo cercando di mettere insieme i dati per ottenere un quadro generale della situazione». Un po’ come ricostruire un puzzle 3D. «L’obiettivo è descrivere in dettaglio queste alterazioni metaboliche, per individuare possibili target terapeutici e per capire su quali aspetti può impattare la dieta chetogenica, che in effetti in alcuni pazienti con questa malattia ha un discreto successo. Sapendone di più, si potrebbe indirizzare meglio la dieta stessa, o provare a sviluppare integratori alimentari che supportino le funzioni metaboliche alterate».
I ciechi e l’elefante
Abbiamo parlato di puzzle 3D, ma c’è un’antica parabola indiana che aiuta ancora meglio a capire quale sia il ruolo delle tecnologie omiche nella ricerca biologica attuale. La parabola racconta di un gruppo di ciechi indiani che, venuti a conoscenza della presenza di un nuovo animale in città – un elefante – decidono di andare a conoscerlo sfruttando non la vista, di cui sono privi, ma il tatto. A seconda della struttura toccata dai singoli ciechi, e cioè proboscide, fianco, orecchio, zanna, coda e gamba, l’animale viene via via paragonato a un serpente, un muro, un ventaglio, una lancia, una corda, un tronco d’albero. Ogni descrizione è aderente alla piccola parte toccata, ma nessuna restituisce l’idea completa di elefante: per farlo, bisognerebbe mettere insieme le informazioni raccolte da ciascuno.
Le cellule non sono certo grandi come elefanti, ma quello che accade al loro interno è così complesso che all’inizio è stato inevitabile esplorare uno o pochi aspetti per volta, anche per i limiti delle tecnologie a disposizione. Proprio come hanno fatto i ciechi con le varie parti dell’elefante. Ora, però, stiamo capendo che proprio a causa di questa enorme complessità, questo approccio chiamato “riduzionistico” non basta più. Da qui l’esigenza di ricorrere agli sguardi più allargati delle omiche, ma non solo: anche quella di mettere insieme le omiche stesse in un approccio chiamato multi-omica che permette di vedere i fenomeni nel modo più ampio e interconnesso possibile. Un po’ come alzare lo sguardo al cielo stellato, concentrandosi dapprima su una singola stella, per poi ammirare tutta la volta celeste fino ad abbracciare l’idea di un Universo infinito. Quasi una vertigine, ma non per gli scienziati. «Siamo curiosi per natura, non ci spaventano né la complessità né l’idea che ci sia sempre qualcosa di nuovo da scoprire» commenta Barbara Monti. «E siamo anche molto determinati: personalmente, non mi arrendo ai punti ancora oscuri della malattia che studio e continuo a lavorare per chiarirli. Nella speranza di trovare soluzioni utili per i malati».
Ma che cosa sono esattamente queste omiche? Che cosa studiano? Con quali strumenti? In quali modi possono essere utili per le malattie genetiche rare?
Il genoma prima di tutto
Non è un caso che in questo articolo siamo partiti dal genoma e dalla genomica per raccontare la rivoluzione omica. Solo poche settimane fa abbiamo ricordato i 20 anni del Progetto Genoma Umano: un progetto così ambizioso che qualcuno lo aveva addirittura ritenuto irrealizzabile e che invece ha consegnato alla storia ancora prima del previsto la sequenza quasi completa del nostro Dna. Aprendoci gli occhi sul fatto che i nostri geni, cioè le sequenze che contengono informazioni esplicite per la sintesi di proteine (gli esperti dicono che “codificano per proteine”) sono molti meno di quanti ci aspettassimo. Viceversa, c’è una vasta porzione di Dna che per ignoranza abbiamo inizialmente etichettato come “spazzatura” e che invece svolge funzioni importantissime per esempio nella regolazione dell’espressione dei geni stessi.
E sono sempre frutto di questo progetto quegli avanzamenti tecnici che hanno portato allo strumento principe delle indagini genomiche, cioè il sequenziamento di nuova generazione, che ha permesso l’identificazione dei geni responsabili di varie malattie genetiche rare ed è alla base del Programma Malattie senza diagnosi dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli.
Trascrittoma e proteoma: postini e operai
La sequenza di Dna del nostro genoma viene spesso paragonata a un’enciclopedia di informazioni necessarie a costruire il nostro organismo. È invece alle proteine che spetta fisicamente la costruzione di gran parte di quello che siamo. Sono proteine l’emoglobina dei globuli rossi, deputata al trasporto di ossigeno, gli anticorpi che ci difendono dalle infezioni, il collagene che conferisce elasticità alla pelle, la cheratina di unghie e capelli, l’insulina che regola il livello di zucchero nel sangue.
Sono dunque i geni a contenere le informazioni per le proteine, ma il passaggio di queste informazioni dai geni ai ribosomi, le “fabbriche” cellulari che si occupano di costruire le proteine, non avviene in modo diretto. A trasferire l’informazione sono invece molecole di Rna detto messaggero (e a questo punto il motivo del nome è chiaro). In breve: le sequenze di Dna dei geni vengono trascritte in molecole di Rna messaggero, che come diligenti postini trasferiscono ai ribosomi la ricetta per la sintesi delle proteine corrispondenti. Gli Rna messaggeri sono anche chiamati trascritti e l’insieme dei messaggeri di una cellula o di un tessuto trascrittoma. Per studiarlo, si utilizzano tecniche di sequenziamento dell’Rna analoghe a quelle utilizzate per il Dna.
L’insieme delle proteine, invece, costituisce il proteoma e per analizzarlo occorre una tecnica differente: la spettrometria di massa. In questo caso non si tratta di sequenziare le singole proteine, cioè leggere la successione dei mattoncini di base che le compongono, ma di separarle e identificarle sulla base del loro peso molecolare. O, per la precisione, del peso molecolare di frammenti delle proteine di partenza.
Omiche per le malattie del neurosviluppo
La proteomica è uno degli approcci che Matteo Fossati intende usare per capire meglio il ruolo delle alterazioni del gene UBE3A nell’insorgenza di alcune malattie del neurosviluppo. «Sappiamo – chiarisce il ricercatore – che una perdita del gene causa la sindrome di Angelman, mentre un aumento del numero di copie dello stesso gene è associato ad alcune forme di autismo. Sappiamo anche che il gene codifica per un enzima che attacca alle proteine speciali bandierine molecolari che segnalano alla cellula le necessità di degradarle: un’attività fondamentale per il corretto funzionamento delle sinapsi, i punti di contatto e comunicazione tra cellule nervose».
Alcuni dati preliminari raccolti dal gruppo di ricerca di Fossati, però, suggeriscono una relazione tra questa attività di UBE3A e l’attacco, sulle stesse proteine, di un secondo tipo di bandierine molecolari. L’ipotesi dei ricercatori è che le alterazioni di UBE3A comportino l’alterazione a cascata anche di queste altre modifiche, con un effetto finale negativo per il funzionamento delle sinapsi. «Ecco perché non possiamo limitarci a studiare UBE3A, ma dobbiamo studiare tutte le proteine con le quali interagisce questo enzima, e quelle con le quali interagisce l’enzima responsabile dell’aggiunta del secondo tipo di bandierine. Per dirlo con un’altra parola omica, dobbiamo studiare un intero “interattoma”. Solo così possiamo sperare di capire cosa non funziona davvero in queste sinapsi, per individuare nuovi bersagli terapeutici per queste malattie».
L’unione fa la forza
Il lavoro di Fossati chiarisce bene perché non basta più una sola omica per andare a fondo nello studio delle malattie genetiche rare, ma questo è un punto sul quale conviene insistere.
La genomica di sicuro può essere di grande aiuto nell’individuare il gene responsabile una malattia. Secondo un articolo pubblicato nel 2019 su un’importante rivista scientifica, l’avvento delle nuove tecnologie di sequenziamento del genoma ha innalzato tra il 21 e il 73% la capacità di diagnosi di una malattia ignota, di cui si sospetti una causa genetica (l’ampiezza dell’intervallo dipende da numerose variabili, tra le quali per esempio l’età dei pazienti). Significa che grazie a queste tecniche da due a sette pazienti su dieci riescono a ottenere una diagnosi che altrimenti sarebbe impossibile.
D’altra parte, non sempre la genomica basta a raggiungere una diagnosi e, come ricorda un articolo pubblicato sempre nel 2019 sulla rivista Nature Medicine, anche la trascrittomica può essere d’aiuto allo scopo. Questo perché può succedere che la sequenza di un gene rimanga intatta ma che per esempio il gene risulti “acceso” (cioè disponibile a essere trascritto) o viceversa “spento” (cioè non trascrivibile) dove non dovrebbe. Oppure potrebbero esserci variazioni nei livelli di trascritto prodotti. Ecco allora che andare a vedere quanti e quali Rna messaggeri ci sono in un certo tessuto di un paziente e confrontarli con quelli presenti nello stesso tessuto di un individuo sano può aiutare a capire l’origine della malattia.
Inoltre, anche quando si individuano geni o Rna “colpevoli”, genomica e trascrittomica possono non dire molto sui meccanismi molecolari responsabili della malattia stessa, per indagare i quali bisogna allargare ulteriormente lo sguardo. Proprio quello che fanno Fossati con la proteomica, oppure Monti e Lasorsa con la metabolomica. «Si tratta dell’insieme di tutte le piccole molecole che partecipano alle vie biochimiche coinvolte nella produzione sia di energia sia di grandi biomolecole (proteine, Dna, Rna), a partire dalle sostanze nutritive» spiega Lasorsa. Sottolineando che come per la proteomica, il metodo di analisi utilizzato è la spettrometria di massa.
Sempre più importanti, ma le sfide non mancano
A testimoniare la crescente rilevanza delle tecnologie omiche nell’ambito delle malattie genetiche rare c’è l’aumento progressivo degli studi e delle pubblicazioni scientifiche sull’argomento. I settori più coinvolti sono l’identificazione di nuovi geni-malattia, l’individuazione di biomarcatori sia per la diagnosi sia per la prognosi, la scoperta di possibili bersagli terapeutici. Si tratta però di campi di indagine relativamente nuovi, e le sfide non mancano. Mentre sono già ben consolidate tecniche, protocolli e sistemi di analisi per la genomica, per altre omiche c’è ancora diversa strada da fare. Per esempio, se già si riesce a sequenziare il genoma di una singola cellula, ancora non è possibile analizzare a questo livello proteoma o metaboloma. Per di più, alcune sfide sono specifiche proprio per il settore delle malattie rare: spesso, infatti, gli approcci omici e multi-omici sono stati sviluppati nell’ambito della ricerca sul cancro, dove c’è disponibilità di grandi numeri di campioni. Ora si tratta di sviluppare approcci applicabili anche ai piccoli numeri delle malattie rare. Per fortuna, come ci ha ricordato Barbara Monti i ricercatori non si spaventano. Il lavoro continua.
FONTE: TELETHON