Dopo la sindrome coronarica acuta, placca aterosclerotica più stabile grazie a evolocumab secondo i risultati di un nuovo studio
L’inibizione della proproteina convertasi subtilisina kexina tipo 9 (PCSK9) con evolocumab in aggiunta alla terapia ottimizzata con statine aumenta in modo significativo le caratteristiche di stabilità della placca ateromasica nei pazienti con malattia coronarica (CAD, coronary artery disease), rispetto alla sola terapia statinica. E’ quanto dimostrato dallo studio di fase III HUYGENS (The High-Resolution Assessment of Coronary Plaques in a Global Evolocumab Randomized Study), i cui dati sono stati presentati al Congresso ESC 2021.
La rottura di una placca vulnerabile rappresenta un fenomeno chiave nello sviluppo di eventi coronarici acuti. Le principali caratteristiche fenotipiche di vulnerabilità della placca aterosclerotica sono costituite dalla presenza di un ridotto spessore del cappuccio fibroso, di un elevato pool di lipidi con un ampio nucleo lipidico centrale e un ampio arco lipidico evidenziato da metodiche di imaging intravascolare.
“Per migliorare la prognosi dei pazienti con sindrome coronarica acuta è fondamentale ottenere la stabilità della placca – afferma Giuseppe Musumeci, Direttore Cardiologia, Ospedale Mauriziano, Torino – non solo di quella che ha causato l’evento acuto (lesione culprit, ndr), ma anche delle altre placche presenti nell’albero coronarico”.
Diversi studi clinici hanno evidenziato una relazione lineare tra riduzione della colesterolemia LDL (LDL-c) e il rallentamento e la regressione della malattia aterosclerotica ed è ormai stato stabilito inequivocabilmente che l’abbassamento dei livelli di LDL-c riduce i tassi di eventi cardiovascolari sia in ambito di prevenzione primaria sia secondaria. “Riuscire a diminuire il colesterolo LDL nella fase post-acuta garantisce l’immediato blocco della progressione della placca favorendone la stabilizzazione”, ricorda Musumeci.
I PCSK9 inibitori consentono grazie al particolare meccanismo d’azione di indurre una profonda diminuzione della colesterolemia LDL.
Lo studio HUYGENS (ClinicalTrials.gov Identifier: NCT03570697) ha valutato se evolocumab, in aggiunta alla terapia statinica, potesse aumentare lo spessore del cappuccio fibroso, così da migliorare la stabilità della placca stessa.
Caratteristiche dello studio HUYGENS
“Si tratta di uno studio randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, che incluso 160 pazienti con infarto N-STEMI documentato da agiografia e presenza di caratteristiche di vulnerabilità di placca in lesioni non culprit”, spiega il professor Stephen J Nicholls direttore del Monash University Victorian Heart Institute di Melbourne (Australia), nonché primo autore dello studio HUYGENS. “Tutti i pazienti erano in terapia ipocolesterolemizzante standard (95% statine) e sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi, il primo ha ricevuto placebo sottocute (sc) una volta al mese oltre alla terapia standard e il secondo evolocumab 420 mg sc una volta al mese aggiunto alla terapia standard”, dice Nicholls.
L’endpoint primario dello studio era la variazione assoluta dello spessore minimo del cappuccio fibroso (FCT) in un segmento arterioso dal basale alla settimana 50, determinato mediante ultrasonografia intravasale (IVUS) e tomografia a coerenza ottica (OCT) intravasale. Gli endpoint secondari includevano: (I) la variazione percentuale dell’FCT minimo, (II) la variazione assoluta nella media dell’FCT minimo per tutte le immagini e (III) la variazione assoluta dell’arco lipidico massimo. Un’ulteriore analisi ha determinato la variazione assoluta dell’FCT minimo, dell’arco lipidico massimo e della lunghezza del nucleo lipidico nelle placche ricche di lipidi, definite come la presenza di un FCT minimo ≤120 μm e di un arco lipidico >90° in almeno tre immagini.
Risultati del trial
“Dopo 12 mesi di terapia con evolocumab o placebo on top alla terapia ipolipemizzante standard, si è osservata una riduzione della colesterolemia LDL da 142,1 a 87,7 mg/dl (-39%) nel gruppo placebo e da 140,4 a 28,1 mg/dl (-80%) nel gruppo evolocumab”, riporta Nicholls. “Lo studio ha soddisfatto il suo endpoint primario: evolocumab in aggiunta alla terapia statinica ottimizzata ha infatti dimostrato di aumentare lo spessore del cappuccio fibroso di 42,7 µm rispetto a un aumento di 21,5 µm con la sola terapia statinica ottimizzata (75% versus 39%; p=0,01)”. Con l’aggiunta di evolocumab lo spessore del cappuccio fibroso è quindi raddoppiato rispetto alle sole statine
Oltre all’endpoint primario sono stati soddisfatti anche gli endpoint secondari. In particolare, la variazione assoluta nella media dell’FCT minimo è stata di +62,3 µm nel gruppo evolocumab e di +29,8 µm nel gruppo placebo (p=0,01). Evolocumab ha indotto una più ampia riduzione del massimo arco lipidico rispetto al plaecbo, -57,5° vs -31,4° (p=0,01), come misurato all’OCT.
Nelle placche ricche di lipidi sono stati osservati miglioramenti nella stabilità della placche in linea con i risultati ottenuti nelle altre placche in lesioni non culprit: l’FCT minimo è aumentato di 24,6 µm nel gruppo placebo e di 40,6 µm nel gruppo evolocumab (p=0,04); la riduzione del massimo arco lipidico è stata di -31,9° con placebo e di -61,9° con il PCSK9i (p=0,02) e la lunghezza lipidica si è ridotta di -3,3 mm con placebo e di -5,8 mm con evolocumab (p=0,02).
Un altro endpoint esplorativo era rappresentato dalla percentuale di riscontro di un FCT < 65 µm, valore considerato un precursore della rottura della placca, a monte della maggior parte dei trombi coronarici. Mediante OCT è stato documentato un riscontro di CFT <65 µm nel 12,5% dei pazienti trattati con evolocumab e nel 30,2% di quelli che hanno ricevuto placebo (p=0,02.)
“La maggior parte delle sindromi coronariche acute è causata dalla rottura della placca e coloro che hanno avuto un infarto sono particolarmente vulnerabili a ulteriori episodi di rottura di placca, a dimostrazione dell´importanza dello spessore del cappuccio fibroso per contribuire a stabilizzare le placche” – ha affermato il coordinatore dello studio. “Questi incoraggianti risultati riaffermano il potenziale di evolocumab ed evidenziano i benefici della molecola nei pazienti con SCA che hanno iniziato il trattamento precocemente”.
Evidenze precedenti
Studi precedenti avevano già mostrato come una terapia ipocolipemizzante potesse migliorare la stabilità della placca ateromasica.
“Lo studio EASY-FIT (Effect of AtorvaStatin therapY on FIbrous cap Thickness in coronary atherosclerotic plaque as assessed by optical coherence tomography) avevano mostrato, mediante tecniche di imaging intravascolare, come una terapia ipolipemizzante più intensa con statine ad alta potenza e alto dosaggio determinasse una stabilizzazione della placca dimostrata dalla modifica strutturale di elementi costitutivi della placca stessa come un maggior spessore del cappuccio fibroso e una riduzione dell’arco lipidico”, spiega Nicholls Altre sperimentazioni hanno confermato queste osservazioni.
Un primo studio con evolocumab, lo studio randomizzato, muticentrio, in doppio cieco e controllo placebo GLAGOV (Global Assessment of Plaque Regression With a PCSK9 Antibody as Measured by Intravascular Ultrasound) ha confrontato gli effetti del trattamento con evolocumab o placebo sulla progressione della placca in pazienti con CAD angiograficamenta documentata. trattati con statine.
“L’aggiunta di evolocumab ha ridotto il colesterolo LDL da 93,0 a 36,6 mg/dL ed è stata associata a una riduzione del volume percentuale dell’ateroma (PAV) dello 0,95%, mentre la sola terapia statinica si associava a un aumento dello 0,05% del PAV (differenza -1%, IC al 95%: -1,8, -0,64; p<0,001). Evolocumab ha indotto la regressione della placca in una percentuale maggiore di pazienti rispetto al placebo [64,3% vs 47,3%; differenza 17,0% (IC al 95%, da 10,4% a 23,6%); P < .001] per PAV dopo 18 mesi”, riporta Nicholls.
Sulla base di queste osservazioni è stato avviatolo studio HUYGENS.
Correlazione con i risultati clinici
“Lo studio HUYGENS ha fornito ulteriori informazioni e ha spiegato in modo più chiaro le modalità con cui l’abbassamento della colesterolemia con evolocumab migliori i risultati clinici “, ha commentato il professor Francesco Prati, Professore, Primario di Cardiologia, Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata, Roma, Presidente del Centro per la Lotta contro l’Infarto e principal investigator dello studio per l’Italia. “Importanti lavori di ricerca, resi possibili anche grazie all’esperienza dei ricercatori italiani sull’impiego della tecnica OCT, con la quale lo studio è stato condotto, ha permesso di mettere a punto il protocollo, definire con chiarezza come misurare le variazioni del contenuto di colesterolo delle placche aterosclerotiche e come rilevare lo spessore del cappuccio fibroso. L’impiego di evolocumab, terapia in grado di abbassare la colesterolemia LDL a valori impensabili fino a qualche anno fa, può ridurre il volume delle placche aterosclerotiche coronariche. Si tratta di un’osservazione importante che in parte giustifica i dati validi che si sono ottenuti con lo studio Fourier basati sull’ impiego di evolocumab in aggiunta ad una terapia ipolipemizzante ottimale”.
Sebbene lo studio clinico HUYGENS non abbia valutato gli esiti cardiovascolari, i risultati confermano ulteriormente le evidenze positive a supporto del profilo clinico di evolocumab. I risultati di HUYGENS aggiungono approfondimenti di rilevo alla comprensione della biologia della placca e contribuiscono al tempo stesso a confermare l’importanza di avviare la terapia con evolocumab subito dopo un infarto. Cinquanta studi clinici – condotti su oltre 47.000 pazienti randomizzati a ricevere evolocumab o placebo – hanno dimostrato i benefici clinici di evolocumab, che comprendono la riduzione degli infarti miocardici e ictus, una rapida (entro quattro settimane) e drastica riduzione del colesterolo LDL sul lungo termine (mediana 2,2 anni) e una sicurezza costante nell’arco di un periodo di trattamento di cinque anni, coerentemente con lo studio FOURIER
“Amgen continua a consolidare le evidenze a supporto del profilo clinico di evolocumab che dimostra i suoi benefici nei pazienti ad alto rischio di incorrere in un altro infarto o ictus” – ha dichiarato David M. Reese, MD, Vicepresidente esecutivo della Ricerca e Sviluppo Amgen. “Questo studio offre evidenze secondo le quali bassi livelli di C-LDL possono modificare le caratteristiche della placca coronarica.”