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La neurotuta Mollii per tornare a camminare

La neurotuta chiamata Mollii prodotta dalla multinazionale tedesca Ottobock

La neurotuta chiamata Mollii, prodotta dalla multinazionale tedesca Ottobock, vince sulle malattie paralizzanti: è costruita per tornare a camminare

Tornare a camminare grazie a una tuta ‘foderata’ di elettrodi, che aiutano a riprendere il controllo dei muscoli e del proprio corpo. Per le persone affette da malattie neurologiche che impediscono i movimenti, questo significa potersi incamminare verso una vita il più possibile normale. È con questo intento che Michele Tebaldi, un giovane di 29 anni della provincia di Verona, con la sua famiglia e alcuni amici ha lanciato nei mesi scorsi una raccolta fondi per poter acquistare questa neurotuta chiamata ‘Mollii’prodotta dalla multinazionale tedesca Ottobock, che ha sede a Budrio nel bolognese. E proprio a Bologna, racconta la Dire (www.dire.it), Michele ha ricevuto la tuta dall’ad dell’azienda, Alessandro Coppi, dopo che la campagna di crowdfunding è andata a buon fine.

La neurotuta è composta da giacca, pantaloni e da una unità di controllo che gestisce i 58 elettrodi di cui è dotato il sistema (che va controllato ogni sei mesi circa). La tuta sfrutta un basso di livello di corrente per produrre una elettrostimolazione su tutto il corpo. In questo modo, sui muscoli contratti viene ridotta la tensione e si stimola un meccanismo fisiologico naturale che aiuta il loro movimento. Va indossata regolarmente almeno un’ora al giorno ogni due giorni e i suoi effetti continuano per 24-48 ore. “Non ci sono effetti collaterali– assicura l’azienda- e non è uno strumento invasivo”. La tuta è utilizzata ad oggi da 250 persone in tutta Italia ed è indicata per chi ha varie forme di paralisi o spasticità dovute a malattie neurologiche, ictus o lesioni. Michele, ad esempio, soffre dalla nascita di una patologia cerebrale chiamata tetraparesi distonica, che gli causa gravi difficoltà nei movimenti, nell’articolare le parole e anche una parziale sordità.

La tetraparesi distonica però non ha impedito al 29enne di Verona di vivere “una vita più o meno normale”, assicura lui stesso, e di prendere ben tre lauree (di cui una in biotecnologia computazionale). L’obiettivo di Michele, spiega la sua mamma, in conferenza stampa, è però “essere dipendente e autonomo”. Così ha provato la neurotuta e “già dalla prima volta ho visto un effetto positivo– racconta il giovane- allora ho pensato: chissà dove posso arrivare?”. Da lì è partita l’idea del crowdfunding, che gli ha permesso oggi di ottenere il dispositivo.

Al fianco di Michele c’è Irene Talacci, 24enne di Rimini, che invece indossa la tuta dal 2015. La giovane è affetta da una malattia metacondriale degenerativa diagnosticata nel 2009, che le provoca forte debolezza muscolare e tremori, al punto che fatica a stare in piedi, camminare, scrivere o usare il pc. “Abbiamo avuto la prova concreta che la tuta funziona– spiega la mamma di Irene- la usiamo tutti i giorni, un’ora al giorno”. E anche quando la 24enne è stata ricoverata a lungo in ospedale (nel 2019 per una polmonite e nel 2020 per una brutta caduta) l’utilizzo della tuta le ha permesso di recuperare il tono muscolare anche dopo tanti mesi ferma a letto. “Ho visto il polpaccio tornare a prendere forma”, dice la mamma. Anche la famiglia di Irene, però, nel 2015 ha dovuto organizzare una raccolta fondi per potersi permettere di acquistare la neurotuta, che ha un costo intorno ai 5.000 euro.

I presidi sanitari rimborsati ai pazienti non comprendono le tecnologie più moderne– sottolinea Coppi- perché si fa sempre riferimento al nomenclatore tariffario che ormai è datato oltre 20 anni. È sempre stato promesso un rinnovo, ma non è mai arrivato. Per cui purtroppo i pazienti devono pagarsi queste tecnologie e tante volte fanno raccolte fondi, che possono riuscire oppure no”. Soprattutto nel caso di pazienti pediatrici, segnala l’ad di Ottobock, “il costo della tuta va chiaramente ripetuto” perchè, crescendo, cambia la taglia e quindi “può essere molto impegnativo”. Quindi, insiste Coppi, “sarebbe corretto che questo tariffario potesse essere rivisto, perchè i diritti di questi pazienti non vanno trascurati”.

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