Diane E. Meier, direttrice emerita del Center to Advance Palliative Care, parla del ruolo della medicina palliativa dopo la pandemia
La pandemia di COVID-19 ha evidenziato la tragedia dei pazienti che muoiono in isolamento, lontano dai familiari e dagli amici, per limitare l’infezione nelle strutture ospedaliere. Questa procedura ha cambiato il modo di vivere le malattie gravi sia per i pazienti che per le persone a loro care, compresa la capacità di sopportare il dolore, di scambiarsi parole e sentimenti importanti e di offrire conforto. La pandemia ancora in atto ha riportato alla mente l’importanza del contatto umano e del sostegno in qualsiasi momento, specialmente nel caso di malattie gravi, e del contributo fondamentale che le cure palliative offrono per sostenere i rapporti umani, riducendo la sofferenza fisica, emotiva e spirituale dei pazienti.
Per circa quarant’anni, Diane E. Meier, MD, FACP, FAAHPM, Director Emerita and Strategic Medical Advisor, Center to Advance Palliative Care; Co-Director, Patty and Joy Baker National Palliative Care Center; Professor, Department of Geriatrics and Palliative Medicine; and Catherine Gaisman Professor of Medical Ethics, Icahn School of Medicine at Mount Sinai in New York City, ha fatto delle cure palliative e della medicina geriatrica il fulcro della sua carriera medica. Nel 1997, la prof.ssa Meier ha fondato l’Hertzberg Palliative Care Institute al Mount Sinai, con lo scopo di migliorare la qualità di vita dei pazienti molto gravi e delle loro famiglie. Ha ricevuto numerosi premi per il suo contributo nello sviluppo del settore della medicina palliativa per soddisfare le esigenze fisiche e psicosociali non corrisposte dei pazienti sia negli stadi iniziali che avanzati della malattia, compresa una borsa di studio della MacArthur Foundation e un premio alla carriera della American Academy of Hospice e Palliative Medicine.
Recentemente ASCO Post ha intervistato la prof.ssa Meier su alcuni tra i più scottanti temi nel campo dell’oncologia, compreso l’impatto della pandemia di COVID-19 sulla medicina palliativa, le disuguaglianze razziali nel ricevere le cure palliative e la controversia che riguarda il suicidio medico-assistito.
Chiarire il bisogno della medicina palliativa
La pandemia di COVID-19 e l’isolamento dei pazienti oncologici e altre malattie gravi ha sottolineato il ruolo della medicina palliativa nell’assistenza ai malati e focalizzato l’attenzione sull’importanza del rapporto umano in medicina?
A livello globale, direi che la pandemia ha aumentato in modo esponenziale la consapevolezza dell’importanza, in realtà del ruolo essenziale, delle cure palliative nell’assistenza ai pazienti con malattie gravi. In tutto il Paese i team per le cure palliative hanno collaborato con la dirigenza per pianificare la risposta alla pandemia. Hanno notevolmente ampliato le loro funzioni, da normale servizio di consulenza sono stati integrati con il personale delle terapie intensive e dei reparti di pronto soccorso, perchè la necessità di cure palliative in entrambi i dipartimenti è molto sentita.
La pandemia ha inoltre consentito a oncologi, cardiologi, neurologi e medici di medicina intensiva, che stavano facendo tutto il possibile per curare la malattia e prolungare la vita ma erano talmente stressati e sopraffatti da non poter dedicare del tempo a parlare con i pazienti e con i loro cari, di collaborare con i medici di medicina intensiva il cui compito è proprio quello. Penso che questo backup abbia permesso a molti nostri colleghi di rendersi conto che i pazienti ricevevano l’assistenza adeguata, anche se non erano in grado di farlo loro stessi per problemi di tempo e per l’enorme quantità di pazienti.
Una parte importante del ruolo dei team per le cure palliative è quella che i miei colleghi chiamano “accompagnamento” per aiutare a prendersi cura dei pazienti gravemente ammalati. È necessaria un’equipe per assistere i pazienti molto malati. Nessuna specialità o singolo individuo può riuscire a farlo bene da solo.
Superare le disuguaglianze nell’erogazione delle cure palliative
Un recente studio ha scoperto che, benchè le linee guida cliniche1 garantiscano le cure palliative ai pazienti gravemente ammalati, le donne con tumore dell’ovaio appartenenti a minoranze etniche hanno probabilità doppie di ricevere cure di fine vita più aggressive rispetto alle donne bianche.2 Perchè esistono disuguaglianze nell’utilizzo delle cure palliative per i pazienti oncologici appartenenti a minoranze etniche? È forse perchè i medici non offrono il loro servizio a queste minoranze o sono esse stesse riluttanti a utilizzare i servizi di medicina palliativa per il timore di non poter ricevere trattamenti salvavita?
Come per tutte le domande importanti la risposta è “dipende”.” Parte del problema è costituito dal fatto che i sistemi sanitari o gli ospedali che hanno risorse insufficienti possono non avere disponibilità di cure palliative o avere capacità non adeguata. Perciò l’accesso alle cure palliative costituisce una problematica enorme. Le minoranze spesso ricevono le cure in strutture od ospedali con scarse risorse, e le cure palliative possono essere così limitate per problematiche legate al personale, che non possono far altro che prendersi cura dei pazienti con sintomatologia acuta o in punto di morte.
Questo problema non si presenta solo nelle comunità dove sono presenti minoranze. Ci sono zone del Paese, per esempio al sud, dove l’accesso alle cure palliative è molto inferiore. Ed è ancora più basso negli ospedali a scopo di lucro rispetto a quelli non profit, perciò la situazione è molto variabile in tutto il Paese.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, molti pazienti appartenenti a minoranze sono abituati al razzismo casuale o palese, in quasi tutti i loro contatti sociali. Questo vale anche per il nostro sistema sanitario, quindi i pazienti partono con una profonda mancanza di fiducia. Quando hai l’impressione che il sistema sanitario non sia interessato a te e ti consideri meno di un altro essere umano e un onere finanziario, sei in allerta; la soluzione che ti stanno offrendo può non essere la migliore nel tuo interesse, ma in quello del sistema sanitario.
Quando a questi pazienti vengono offerte opportunità del tipo bianco / nero, scelte sì / no – puoi provare la chemioterapia di quarta linea oppure nessuna e cure palliative – sembra una decisione di triage più che un ulteriore supporto ai pazienti che affrontano la quarta linea di trattamento e hanno bisogno di aiuto per l’ansia, la depressione, il dolore e le necessità dei loro caregiver. Quando le cure palliative vengono presentate come un premio di consolazione, sembra una mancanza di assistenza invece che il riconoscimento che questo è il modo in cui forniamo cure di qualità alle persone con malattie gravi, quando la malattia è curabile, gestibile per un lungo periodo o in progressione, comprese le persone con il cancro. Penso che la colpa sia nel modo in cui le cure palliative vengono descritte e proposte dagli oncologi e da altri come “questo è quello che possiamo fare quando non c’è altro da fare”, perciò il paziente lo percepisce come un abbandono da parte dell’oncologo.
Questo è uno dei motivi per cui è così importante fornire cure palliative così come tutte le altre cure mediche appropriate, stabilendo relazioni e infondendo fiducia fin dal momento della diagnosi.
Proteggere i più vulnerabili
Nel suo editoriale su JAMA Internal Medicine,3 lei affronta il delicato argomento della convinzione che la sofferenza insopportabile sia inevitabile e impossibile da gestire e dovrebbe quindi essere accolta da parte dei medici per accelerare la morte dei pazienti. Quali sono i suoi dubbi sulla morte assistita? Non dovrebbero i pazienti avere il diritto di decidere come morire?
La mia posizione a questo proposito è articolata ed è cambiata notevolmente negli ultimi 30 anni. Intendo dire che rispetto il diritto delle persone all’autodeterminazione, il diritto di stabilire quando il peso della vita diventa insopportabile e quando la morte diventa preferibile alla vita in quelle condizioni. Rispetto il fatto che nessuno possa prendere una decisione di questo tipo per qualcun altro.
Tuttavia sono molto preoccupata per lo sviluppo di una politica pubblica da applicare a tutti i casi e che dà a tutti i medici il diritto legale di prescrivere farmaci per aiutare le persone a porre fine alla loro vita. Queste leggi si basano sulla credenza naïve che una regolamentazione possa controllare le procedure di prevenzione degli abusi. È questo il punto che cercavo di evidenziare nell’editoriale. Non è il fatto che dovrebbe essere un valore morale aiutare le persone a gestire il momento della morte, ma che una corretta politica pubblica deve proteggere i più vulnerabili.
Guardate i dati dell’Olanda, ed ora anche in Canada, dove la morte assistita è legale. Questi dati mostrano che i medici adesso devono seguire solo vagamente i criteri di cura, per esempio sia il medico che il paziente giungono alla conclusione che non ci sono alternative ragionevoli, prima di praticare l’eutanasia o il suicidio assistito dal medico. In questo scenario, offrire assistenza medica alla morte, a un paziente che non l’ha richiesta, può sembrare una soluzione ai costi elevati dell’assistenza continuativa.
Per esempio, in Canada c’è il caso di un giovane tra i 20 e i 30 anni con una malattia neurodegenerativa. Presenta normali funzioni cognitive, ma ha bisogno di assistenza h24 per tornare a casa. Il sistema sanitario non prevede il pagamento dell’assistenza domiciliare per cui è bloccato in ospedale. Ovviamente nemmeno l’ospedale può offrire l’assistenza quando le risorse limitate di cui dispone possono essere impiegate meglio per qualcuno che può trarre beneficio della permanenza in ospedale. Poiché mancano i fondi per l’assistenza domiciliare gli hanno proposto la morte assistita.
È un paziente che non si può muovere e non è autonomo. I sanitari che dovrebbero essere dalla sua parte e fare ciò che è meglio per lui, gli stanno offrendo un modo per suicidarsi. Non è difficile capire come questa situazione potrebbe ripetersi se la legge sulla morte assistita si diffondesse ad altri Stati. (Nota dell’editore: ad aprile 2021, nove Stati, tra cui California, Colorado, Hawaii, Maine, New Jersey, New Mexico, Oregon, Vermont e Washington, così come il Distretto di Columbia, hanno approvato gli statuti sulla morte assistita. In Montana, la morte assistita è stata resa legale dalla Corte Suprema dello Stato dal 2009).4
Abbiamo una popolazione che invecchia rapidamente, un gruppo sempre maggiore di persone altamente funzionali ma cognitivamente compromesse. Prendersi cura di queste persone è costoso, è un peso che grava sulla famiglia, e ora stiamo dando ai medici il potere di prescrivere farmaci per terminare la vita di una persona. Chiunque si occupi dei pazienti sa che le famiglie esercitano un’enorme influenza sull’assistenza fornita dai medici. Se i familiari sono agguerriti e insistono che il malato non ha mai voluto vivere in una condizione di incapacità, è difficile resistere a quella pressione. Considerare illegale la morte assistita in queste situazioni consente di proteggere i pazienti vulnerabili.
Allora dovremmo dipendere dalla società perchè fornisca politiche e risorse pubbliche per chi soffre di malattie debilitanti o infermità?
La gente dovrebbe dire “È giusto che tu dica che dovremmo utilizzare risorse infinite per offrire assistenza umana e compassionevole a persone come il giovane canadese bloccato in ospedale, ma non si può fare. Allora che cosa ritiene sia giusto fare nel frattempo? Persone come queste vanno lasciate soffrire?” La perdita di fiducia nei medici è un prezzo salato da pagare rispetto al numero molto limitato di persone che scelgono di avvalersi della morte medicalmente assistita.
In conclusione, è fondamentale che i pazienti credano che i loro i medici stanno dalla loro parte e difendono il valore della vita, invece di schierarsi dalla parte della morte perchè sono considerati un peso.
Capire le motivazioni dei pazienti nella scelta della morte assistita
I medici come dovrebbero rispondere alla richiesta di morte assistita?
La prima cosa da fare è capire se la richiesta è espressione della disperazione del paziente. La seconda cosa è indagare a fondo per capire che cosa ha portato il paziente a una tale disperazione, perchè c’è una diagnosi differenziale per ogni richiesta. Può essere una convinzione acquisita razionalmente di non voler vivere più, ma nove volte su dieci si tratta di altro. Per esempio, la rabbia verso Dio per aver permesso lo sviluppo del cancro, oppure una depressione non curata, un trauma precedente che sta causando un disturbo post-traumatico da stress, o la malattia stessa che può dare dolore e altri sintomi. Oppure il paziente ritiene che la sua malattia sia un peso per la famiglia e che non ci siano possibilità di alleviarlo.
Non è meglio occuparci di queste problematiche piuttosto che compilare una prescrizione di morte che pone fine alla vita dei pazienti? Quindi che cosa serve per indagare e valutare attentamente per individuare le cause della disperazione del paziente e cercare di alleviarle? Serve tanta formazione che attualmente i medici non ricevono. E la formazione e il dialogo con i pazienti richiedono tempo che nessuno ha, perchè ci sono 30 persone in sala d’attesa. Questa è la realtà della pratica clinica di oggi.
È molto pericoloso legalizzare la morte assistita in queste circostanze molto pressanti in termini di tempo e di denaro. Quando prescrivere il secobarbital è il modo più veloce e meno costoso per rispondere alla sofferenza – ed è legale farlo – può diventare rapidamente la soluzione ideale. Le persone che chiedono la legalizzazione della morte assistita credono che questa non sia la realtà ma lo è.
Fornire cure palliative di alta qualità è compito di tutti
Per molti pazienti la maggior preoccupazione alla fine della vita non è il dolore ma la debilitazione e la dipendenza dalle cure mediche e dalla famiglia. Come può la medicina palliativa offrire questo tipo di sollievo ai pazienti che stanno morendo di cancro?
Le equipe di medicina palliativa passano molto tempo a parlare con i pazienti e i loro familiari su questi temi. Ogni persona che vive con una malattia grave ha momenti in cui vuole solo smettere di soffrire. Ma è pericoloso pensare che sia una convinzione definitiva, razionale e a lungo termine. Tutti i componenti del team di medicina palliativa sono addestrati ad accettare quel livello di disperazione e di sofferenza e a focalizzare la loro attenzione sulla persona che esprime le sue preoccupazioni; il team quindi è in grado di analizzare insieme al paziente le cause di quella disperazione, offrendogli così una nuova prospettiva e la capacità di andare avanti.
Ma mantenere queste conversazioni richiede abilità e formazione, oltre che tempo e uno staff adeguato per le equipe di medicina palliativa. Quindi, una delle maggiori priorità secondo me è arrivare al punto in cui i centri oncologici, gli ospedali, le strutture sanitarie e le organizzazioni di comunità siano tenuti a fornire servizi di cure palliative in accordo con le linee guida per un’assistenza di qualità. Attualmente non esistono questi requisiti e ci sono notevoli diversità nel Paese per quanto riguarda il personale e la qualità.
Non è colpa dei medici se non ricevono formazione in medicina palliativa o in comunicazione durante il corso di medicina e la specializzazione. Tuttavia è responsabilità di tutti diventare buoni comunicatori e maggiormente capaci di identificare e trattare le cause comuni della sofferenza emotiva e fisica dei pazienti. Non ci saranno mai abbastanza specialisti di cure palliative per soddisfare le necessità di tutti i nostri pazienti. È compito di ognuno di noi offrire ai pazienti sollievo dai sintomi e dallo stress delle malattie gravi.
Ci sono vari modi per ottenere una formazione medica online continua di alta qualità e mantenere la certificazione in medicina palliativa. Un esempio è rappresentato dal Center to Advance Palliative Care (www.capc.org), dove i medici possono ricevere formazione e strumenti per comunicare al meglio la prognosi, imparare a gestire un incontro familiare e parlare con i pazienti per aiutarli a realizzare ciò che è più importante per loro nel contesto mutevole della loro malattia. Per esempio, per un paziente oncologico con malattia all’ultimo stadio che è ancora in grado di viaggiare, può essere più importante portare la famiglia a fare la crociera tanto desiderata che essere arruolato in uno studio clinico per un trattamento di quarta o quinta linea. Se noi medici facciamo domande, possiamo capire che cosa conta di più per i pazienti e dare suggerimenti per aiutarli a realizzare i loro obiettivi.
Abbiamo necessità di medicina palliativa di livello specialistico per le situazioni più complicate e quelle più difficili. Ed è necessario che tutti i medici migliorino le loro capacità e le loro conoscenze sulla comunicazione e sulla gestione dei sintomi, perchè offrire quel tipo di assistenza è responsabilità di ognuno di noi.
Bibliografia
- Ferrell BR, Temel JS, Temin S, et al: Integration of palliative care into standard oncology care: American Society of Clinical Oncology Clinical Practice Guideline Update. J Clin Oncol 35:96-112, 2017.
- Mullins MA, Ruterbusch JJ, Clarke P, et al: Trends and racial disparities in aggressive end-of-life care for a national sample of women with ovarian cancer. Cancer 127:2229-2237, 2021.
- Meier DE: The treatment of patients with unbearable suffering: The slippery slope is real. JAMA Intern Med 181:160-161, 2021.
- Death With Dignity: How Death With Dignity Laws Work. Available at https://deathwithdignity.org/learn/access/. Accessed August 23, 2021.