Tumore al seno: le pazienti chiedono più cure dopo la chirurgia


Tumore al seno: più dell’80% delle pazienti teme anche i ritardi nella disponibilità in Italia dei trattamenti innovativi in grado di migliorare la sopravvivenza

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Per il 57% delle pazienti con tumore del seno la telemedicina può essere un valido strumento da utilizzare anche nel post pandemia. Il 78% ritiene che il monitoraggio a distanza da parte dello specialista debba riguardare soprattutto le donne che assumono terapie orali e per il 92% coloro che hanno terminato le cure e devono sottoporsi ai controlli. Il 93% valuta positivamente l’eventuale rinforzo ed estensione della terapia adiuvante, cioè successiva alla chirurgia, per ridurre il rischio di recidiva. Ma più dell’80% teme i ritardi nella disponibilità in Italia di nuovi trattamenti in grado di migliorare la sopravvivenza.

E per il 72% l’emergenza sanitaria causata dal Covid ha distolto l’attenzione delle Istituzioni dalle esigenze delle persone colpite dal cancro. Sono i principali risultati del sondaggio on line su circa 130 pazienti con carcinoma mammario sull’assistenza sanitaria nel post Covid. L’incontro con i giornalisti è parte di un progetto di sensibilizzazione sulla terapia adiuvante realizzato con il supporto incondizionato di Pierre Fabre.

“Ogni anno, in Italia, quasi 55mila donne ricevono la diagnosi di tumore della mammella, la neoplasia in assoluto più frequente in tutta la popolazione e in costante crescita – spiega Francesco Cognetti, Presidente della Fondazione Insieme Contro il Cancro -. La terapia adiuvante della malattia radicalmente operata può essere considerata uno dei maggiori successi in oncologia negli ultimi trent’anni. Infatti, nonostante il costante aumento dei casi, la mortalità è diminuita del 6,8% rispetto al 2015, non soltanto per effetto della diagnosi precoce attraverso programmi di screening, ma anche per l’efficacia della terapia adiuvante. La sopravvivenza a 5 anni infatti raggiunge l’88% e pone il nostro Paese ai vertici in Europa. Sono tre i trattamenti adiuvanti, chemioterapia, ormonoterapia e terapia biologica, proposti alle pazienti in base allo studio del singolo caso, alle caratteristiche del tumore e alle condizioni fisiche della donna, senza trascurare i suoi desideri e necessità”.

La maggior parte delle pazienti, circa 46.200 (84% del totale), presenta la malattia in stadio iniziale (I-II-III) e 7000 (il 15% di queste ultime) sono caratterizzate da iperespressione della proteina HER2 (HER2+). In questa popolazione, il trattamento sistemico adiuvante con la chemioterapia, la terapia ormonale e un anno di terapia biologica con un anticorpo anti-HER2 rappresenta oggi lo standard di cura ed è in grado di ridurre il rischio di recidiva (locale, regionale, a distanza) e di morte.

“Le pazienti con carcinoma mammario HER2 positivo operabile vengono oggi trattate con terapie personalizzate in base al livello di rischio basato sulle dimensioni del tumore e l’eventuale interessamento dei linfonodi ascellari – afferma Pierfranco Conte, Presidente Fondazione Periplo -. Per i tumori di dimensioni maggiori di 2 cm e/o con linfonodi ascellari palpabili e/o evidenziati all’ecografia ascellare, il trattamento standard è la chemioterapia preoperatoria associata al trastuzumab seguito da chirurgia; se alla chirurgia non esiste più tumore, viene completato un anno di trastuzumab; se invece persiste tumore a livello mammario e/o linfonodale, le pazienti vengono trattate con TDM1, un anticorpo antiHER2 che veicola un potente citotossico sulle cellule tumorali. I tumori più piccoli vengono invece operati subito e trattati poi con chemioterapia postoperatoria più trastuzumab se i linfonodi sono negativi o chemioterapia più trastuzumab e pertuzumab se i linfonodi sono positivi. La terapia ormonale viene aggiunta in tutti casi in cui il tumore esprima anche i recettori ormonali. Queste scelte terapeutiche hanno migliorato notevolmente la sopravvivenza, rendendo la malattia HER2 positiva guaribile nella grande maggioranza delle pazienti, ma non hanno eliminato il rischio di un ritorno del tumore. Una percentuale di pazienti compresa fra il 15 e il 20% continua a recidivare con un picco di incidenza a 18-24 mesi dall’intervento chirurgico, anche se alcune pazienti presentano recidive tardive anche a 10 anni di follow-up. Di conseguenza, in questa popolazione, sussiste un forte bisogno clinico ancora insoddisfatto di ridurre il rischio di ricadute, di progressione e di morte”.  

“La maggior parte delle recidive ha un decorso inevitabile verso la malattia metastatica – sottolinea il prof. Cognetti -. Ecco perché il potenziamento delle terapie adiuvanti rappresenta l’unica via per ridurre le possibilità di ricaduta, con conseguente incremento delle guarigioni definitive. Nuove possibilità sono oggi disponibili perché studi recenti hanno dimostrato che farmaci innovativi, aggiunti alle terapie standard a quel 15-20% delle pazienti non ancora guarite, sono in grado di ridurre ulteriormente le recidive a distanza a 5 anni”.

“Più guarigioni si traducono in un contenimento dei costi per farmaci, visite e ospedalizzazioni e, quindi, in risparmi per il sistema sanitario – conclude il prof. Conte -. Il sondaggio ha evidenziato anche il ruolo che la telemedicina potrà svolgere in futuro. Si tratta di uno strumento che abbiamo utilizzato soprattutto durante il lockdown causato dalla pandemia e che dovremo implementare, senza pensare che possa sostituire le visite in presenza. Inoltre va sempre considerata l’appropriatezza. Con i progetti Re.Mi, sostenuti da Fondazione Periplo, abbiamo definito i requisiti minimi del percorso diagnostico terapeutico e assistenziale (PDTA) dei carcinomi della mammella e del polmone. Lo scopo è condividere e uniformare a livello nazionale i requisiti minimi, perché il PDTA in queste patologie possa ritenersi adeguato. Per la paziente con tumore del seno avviata al percorso chirurgico, l’intervento deve essere eseguito entro 30 giorni da quando è posta l’indicazione. E la terapia medica adiuvante va iniziata entro 8 settimane dall’intervento. Evidenze scientifiche hanno dimostrato che i ritardi possono compromettere l’efficacia delle cure”.