Sindromi mielodisplastiche: le trasfusioni rappresentano una terapia imprescindibile per tanti pazienti
Sono un gruppo di patologie del sangue assolutamente eterogenee. Per lo più vedono la loro origine nelle alterazioni delle cellule staminali del midollo osseo e sono caratterizzate dalla carenza di cellule ematiche. Stiamo parlando delle sindromi mielodisplastiche, dette anche mielodisplasie. Queste forme, solo nel nostro Paese, ogni anno colpiscono tra le 3mila e le 4mila persone. Le tipologie sono diverse: si passa da quelle a basso rischio fino a quelle che possono evolvere in leucemia mieloide acuta, con conseguente sopravvivenza di non più di uno o due anni dalla diagnosi.
Fondamentale nel loro trattamento è il ruolo dei donatori e delle trasfusioni, a cui le persone devono ricorrere anche parallelamente ad altre terapie cliniche. Per conoscere meglio queste malattie e capire quanto la donazione di sangue (e, vedremo, anche di piastrine) sia strategica, AVIS ha raggiunto la professoressa Maria Teresa Voso che, oltre a essere la presidente della SIES (la Società italiana di ematologia sperimentale), è anche professore associato di Ematologia all’Università Tor Vergata di Roma, e direttrice dell’UOSD Diagnostica Avanzata Oncoematologica del Policlinico di Tor Vergata.
Professoressa, spieghiamo cosa sono le sindromi mielodisplastiche e quante ne conosciamo.
«Si tratta di patologie che colpiscono principalmente le persone adulte superati i 60 anni di età. La loro incidenza aumenta con il passare del tempo e, pur conoscendone almeno 7 tipologie diverse, possiamo dividerle in due macro gruppi: quelle a basso rischio e quelle ad alto rischio».
Qual è la loro origine e per cosa si caratterizzano?
«Nel 90% dei casi l’origine non è conosciuta, ma fanno parte di quelle forme neoplastiche associate all’invecchiamento. Un 10% si sviluppa a seguito di chemio- o radioterapia per altre patologie, principalmente riconducibili a linfomi, mielomi o tumori solidi. Quando l’unico sintomo è l’anemia e, più raramente piastrinopenia o neutropenia, spesso la forma è a basso rischio. Quando invece è presente una riduzione di tutti e tre gli elementi del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, ndr) ed è presente un aumento delle cellule immature nel midollo osseo (i blasti), o sono presenti alterazioni genetiche specifiche, allora significa che la forma è ad alto rischio di evoluzione in leucemia mieloide acuta».
Esiste una fascia d’età più colpita rispetto alle altre?
«L’età media è 69 anni. Diciamo che oltre i 60 anni è molto più frequente, mentre a differenza di altre patologie legate al sangue, meno del 10% dei casi si manifestano nei pazienti più giovani (6-7%)».
Come si manifestano e quali sono le aspettative di vita?
«I sintomi possono essere diversi. Si passa dalla stanchezza all’affanno per sforzi lievi, dall’estrema affaticabilità al pallore, quali sintomi dell’anemia. Con la neutropenia si può verificare uno stato febbrile prolungato o altre infezioni, o ancora, con la piastrinopenia, è facile imbattersi in sanguinamenti anche a seguito di traumi leggeri. Le forme a basso rischio offrono un’aspettativa di vita più lunga, ma necessitano di trattamenti specifici. Quelle a rischio alto, invece, se non trattate non superano uno-due anni dalla diagnosi».
Come si arriva alla diagnosi?
«Generalmente dopo un esame del sangue. Se il risultato dell’emocromo risulta alterato, il medico prescriverà il dosaggio di ferro e vitamine, ma se i valori sono normali e si è in presenza di anemia, allora viene richiesta una visita ematologica. L’ematologo porrà indicazione a un eventuale prelievo del midollo osseo, che permette di diagnosticare la forma specifica di sindrome mielodisplastica».
Quali sono le terapie attualmente adottate?
«Le trasfusioni di sangue rappresentano una procedura consolidata e assolutamente indispensabile per tutti i pazienti. È un trattamento che viene effettuato anche parallelamente ad altre terapie. Nelle mielodisplasie a basso rischio, il farmaco più utilizzato è l’eritropoietina nei casi con anemia, che ne induce un miglioramento nel 50-60% dei casi. Tuttavia, dopo circa un paio d’anni la risposta a questo medicinale spesso di riduce, motivo per cui, nei casi di “Sindrome del 5Q-“ (un’anomalia citogenetica specifica che consiste nella perdita di una porzione del braccio lungo del cromosoma 5, ndr), viene somministrata la lenalidomide. Nelle forme ad alto rischio si ricorre, invece, all’azacitidina, un ipometilante che consente di migliorare i valori dell’emocromo e ritardare l’evoluzione leucemica, prolungando la sopravvivenza. Nei pazienti più giovani, in circa il 10% dei casi di MDS ad alto rischio, è possibile procedere con un trapianto allogenico di cellule staminali. Tra i farmaci più recenti, approvato anche dall’AIFA e presto disponibile, c’è il luspatercept che si usa nelle forme a basso rischio con “sideroblasti ad anello” (un altro tipo di MDS, ndr), resistenti all’eritropoietina».
Ha fatto riferimento alle trasfusioni: che ruolo giocano i donatori in questa “partita”?
«Le trasfusioni sono fondamentali per tutti i pazienti, fin dalle prime fasi. Alla diagnosi, durante il trattamento, fino al trapianto allogenico. Se possiamo intervenire è proprio grazie ai donatori e non mi riferisco solo ai globuli rossi, ma anche alle piastrine. Questo gesto rappresenta per tutti noi che facciamo ricerca anche un alleato prezioso, perché ci aiuta non solo ad assicurare terapie costanti ai pazienti, ma anche a sviluppare nuove strategie che, allo stesso tempo, consentano l’uso sempre più consapevole degli emocomponenti. L’utilizzo razionale del sangue rappresenta un servizio di salute pubblica e di tutela per tutti».
FONTE: AVIS