Nuovo studio su insufficienza cardiaca e carenza di vitamina D


Insufficienza cardiaca acuta con carenza di vitamina D, degenze prolungate ma minore mortalità ospedaliera. Gli integratori possono avere funzione protettiva

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Uno stato carenziale di vitamina D è stato collegato a una maggiore durata della degenza, ma a una minore mortalità intraospedaliera, nei pazienti ricoverati con insufficenza cardiaca (HF) acuta, secondo una studio presentato in forma virtuale nel corso delle American Heart Association Scientific Sessions 2021.

«La carenza di vitamina D è altamente prevalente nei pazienti con HF congestizia e associata a esiti clinici avversi» ha detto Govinda Adhikari, del McLaren Flint Hospital, a Flint, nel Michigan (USA).

L’importanza del calcitriolo sulla frazione di eiezione ventricolare sinistra
In effetti la vitamina D, oltre a essere essenziale per la salute delle ossa e dei denti attraverso la regolazione del metabolismo fosfo-calcico, possiede un’importanza rilevante per la corretta funzionalità di tre sistemi: immunitario, respiratorio e – per l’appunto – cardiaco.

Già svariate ricerche hanno dimostrato che i pazienti con HF hanno spesso carenza di vitamina D e che tale ipovitaminosi è associata a una prognosi peggiore rispetto a quella dei pazienti che ne possiedono livelli maggiori.

Non è chiaro esattamente come la vitamina D possa migliorare la funzione cardiaca ma si ritiene che ogni cellula dell’organismo risponda allo stimolo ormonale del calcitriolo (la forma biologicamente attiva della vitamina D, frutto della idrossilazione renale della 25-idrossivitamina D presente nel siero).

A livello cardiaco, in particolare, possono essere coinvolti i miociti, dato che più studi hanno riportato un incremento della frazione di eiezione ventricolare sinistra, ovvero della funzione di pompa, con aumento variabile compreso tra il 6% e il 10% circa rispetto al braccio placebo.

A riprova di ciò, è stato verificato che il rischio di scompenso cardiaco è 12 volte maggiore negli anziani con carenza di vitamina D rispetto a quelli con concentrazioni sieriche adeguate.

Del resto le persone anziane difficilmente seguono un’alimentazione corretta e spesso hanno un inadeguato funzionamento intestinale e una ridotta esposizione alla luce solare. Sono principalmente queste le ragioni per cui, frequentemente, non raggiungono il livello minimo raccomandato (30 ng/mL) di 25-idrossivitamina D.

Studio retrospettivo condotto su quasi 180mila pazienti dimessi dall’ospedale
Utilizzando i dati del National Inpatient Sample (NIS) dal 2016 al 2017, Adhikari e colleghi hanno studiato se la carenza di vitamina D fosse associata alla mortalità ospedaliera o alla durata della degenza tra i pazienti adulti ricoverati in ospedale con HF acuta.

Adhikari e colleghi hanno condotto analisi bivariate, come il chi-quadrato e il test esatto di Fisher con variabili categoriche e test medio e mediano per la durata della degenze, allo scopo di determinare le differenze di gruppo tra i pazienti con HF acuta. I ricercatori, inoltre, hanno tenuto conto delle comorbilità usando l’indice di comorbilità di Charlson.

Rispetto alle 177.811 dimissioni dopo ricovero per HF acuta, si è verificato che 3.542 pazienti avevano carenza di vitamina D. I risultati hanno mostrato che lo stato di carenza di vitamina D era legato a un rischio inferiore del 31,5% di mortalità ospedaliera rispetto allo stato non carenziale di vitaminica D (OR aggiustato = 0,68; IC 95%, 0,54-0,87).

Tuttavia, i ricercatori hanno riportato un aumento statisticamente significativo della durata della degenza (beta = 0,95; IC 95%, 0,06-0,13) nei pazienti con carenza di vitamina D rispetto a quelli senza.

«Nonostante la limitazione correlata al fatto che il nostro database retrospettivo fosse basato esclusivamente sui giorni in cui è stata posta la diagnosi, abbiamo ipotizzato la possibilità che la maggior parte dei pazienti identificati come carenti di vitamina D nel giorno della diagnosi molto probabilmente stessero assumendo integratori di vitamina D, il che avrebberpotuto spiegare l’effetto protettivo sulla mortalità ospedaliera» ha concluso Adhikari.

Fonte:
Adhikari G, et al. Abstract P1787. American Heart Association Scientific Sessions, 2021 (virtual meeting).