Variante Omicron e Long Covid: fondamentale individuare i fattori di rischio e delineare la corretta gestione multidisciplinare di questa sindrome
L’ultimo report dell’Imperial College di Londra, che ha preso in esame dati della U.K. Health Security Agency (UKHSA) e del Servizio sanitario nazionale (NHS) ha evidenziato come la variante Omicron possa contagiare guariti dal covid e soggetti che hanno ricevuto due dosi di vaccino. Secondo gli esperti il rischio di reinfezione con la variante Omicron è di 5,4 volte maggiore rispetto alla variante Delta e rappresenta una seria minaccia per la salute pubblica, dal momento che l’infezione sintomatica da Omicron sembra eludere l’immunità che può dare l’aver avuto la malattia e aver fatto il vaccino anti-covid.
Per questo assume sempre più importanza la campagna vaccinale per la terza dose, al momento, principale strategia disponibile per contrastare la diffusione di altre varianti che dovessero emergere.
L’unica certezza al momento è che non si hanno ancora sufficienti dati per poter affermare nulla di davvero concreto, se non che il Covid19 si presenti come una malattia multi-sistemica, in grado di causare danni in diversi organi e apparati e che attacca in particolare l’endotelio. Già svariati studi relativi ai primi mesi di pandemia ne hanno dato dimostrazione.
La prima ricerca arriva dall’Albert Einsten College of Medicine di New York, e dimostra che le manifestazioni sistemiche osservate nella malattia da coronavirus (COVID-19) potrebbero essere spiegate da una disfunzione endoteliale preesistente. Successivamente è l’ospedale Cotugno di Napoli a dimostrare con uno studio clinico come un intervento mirato ad ottimizzare la funzione endoteliale possa essere effettivamente utile a migliorare il decorso dei pazienti affetti da questa malattia.
“Molti pazienti da noi seguiti da novembre 2020 ad oggi, ricoverati in sub-intensiva al Cotugno, hanno mostrato segni di danni all’endotelio, pur mostrando una buona saturazione, ma una bassa concentrazione di ossigeno” spiega il Professor Giuseppe Fiorentino – primario del reparto di Pneumologia del Cotugno.
Lo studio, randomizzato, in doppio cieco, controllato verso placebo, che nella sua analisi ad interim ha determinato l’arruolamento di 100 pazienti, ha evidenziato come già dopo 10 giorni dall’inizio della somministrazione, il trattamento con due flaconcini al giorno di Bioarginina® (ciascuno contenente 1.66 grammi di L-arginina libera da sali) determini una riduzione del supporto respiratorio in oltre il 70% dei pazienti trattati, con un deciso miglioramento della funzionalità respiratoria.
Questo ha comportato anche una riduzione nei tempi di degenza: 25 giorni rispetto a 46 di degenza media dei pazienti in trattamento con il placebo.
“La ridotta permanenza in ospedale significa inoltre una minore esposizione ad ulteriori infezioni” – continua il Professor Fiorentino – “poiché la L-Arginina agisce sia sulla risposta immunitaria che infiammatoria.”
Inoltre, i benefici nel miglioramento della funzione endoteliale hanno avuto dei risvolti positivi anche nel lungo periodo, nei soggetti affetti da Long Covid. “Abbiamo notato che tra i pazienti che avevano assunto L-Arginina, anche l’astenia si era marcatamente ridotta.”
La dimostrazione, sia pur preliminare visto che lo studio è ancora in corso, che due flaconcini al giorno di Bioarginina® per via orale in aggiunta alla terapia standard in pazienti ospedalizzati per COVID-19 possano migliorare sensibilmente il decorso della malattia da COVID-19 è di particolare importanza vista la penuria di trattamenti disponibili in questo tipo di pazienti e rappresenta una nuova frontiera per una gestione migliore dei pazienti COVID-19 basata su un solido razionale fisiopatologico.
Lo studio condotto dall’Ospedale Cotugno di Napoli, in collaborazione con l’Università Federico II e l’Albert Einstein College of Medicine di New York City, è stato pubblicato sulla testata di libero accesso di The Lancet (EclinicalMedicine).