All’Ospedale Maggiore un ambulatorio per il Long Covid


Problemi motori, stress e incubi: all’Ospedale Maggiore di Bologna un ambulatorio per curare i pazienti affetti da Long Covid

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Un pool di specialisti per aiutare i pazienti che hanno problemi nella fase successiva al coronavirus, il cosiddetto Long Covid, e allo stesso tempo di studiarne le caratteristiche “per capire i bisogni nel futuro anche di altri pazienti che stanno vivendo la realtà della malattia”.

All’ospedale Maggiore di Bologna nasce un ambulatorio dedicato per chi è guarito dalla forma più grave del virus, a partire dai pazienti ricoverati una settimana o più nel reparto di terapia intensiva. Dopo la guarigione clinica infatti, alcuni pazienti soffrono di effetti a lungo termine e talvolta gli stessi medici ammettono di “non conoscere” il modo esatto di affrontarlo. È il cosiddetto Long Covid dunque l’oggetto di studio di questo progetto sperimentale, nato da un’idea degli stessi medici dei reparti intensivi, ma partito proprio “dalle richieste dei cittadini, che soffrono di disturbi a lungo termine derivanti da questa grave patologia, di carattere respiratorio, fisiatrico-riabilitativo e anche psicologico”.

Da qui quindi l’idea di “provare a inventarci un ambulatorio che potesse dare una risposta unica a queste persone, evitando loro di dover organizzare il giro tra più specialisti- sintetizza Lorenzo Giuntoli, anestesista rianimatore del reparto di Terapia intensiva e nelle aree critiche del Maggiore- quindi di provare a costruire un percorso governato e coordinato da quest’ambulatorio che potesse dare ai pazienti le risposte di salute che cercano”.

L’attività dell’ambulatorio è iniziata ad agosto e ad oggi ha coinvolto “all’incirca 300 pazienti” tutti curati nel bacino dell’Ausl di Bologna, e per il momento “stiamo cominciando a vederne alcune decine”. L’età media varia da 60 a 70 anni “ma ci sono anche più giovani, sui 40 anni”. Il tutto comincia con una visita congiunta con quattro specialisti: fisiatra, pneumologo, psicologo e anestesista rianimatore. In questa fase iniziale ancora sperimentale “cerchiamo noi i pazienti e chiediamo la disponibilità di entrare in questo percorso– prosegue Giuntoli- se accettano, e la maggior parte lo ha fatto di buon grado, fissiamo un appuntamento e li vediamo in maniera congiunta”. In questa prima visita “si fa il punto sulla qualità della vita percepita dal paziente. Tutto parte da un questionario, da lì si individuano le necessità, poi il paziente viene ‘agganciato’ dai servizi dell’Ausl, a seconda delle necessità”. Quindi si organizza “un percorso fisiatrico-fisioterapico o un percorso di day hospital pneumologico, o quant’altro fosse necessario”.

GLI EFFETTI DEL LONG COVID

Ma quali sono nello specifico i disturbi a lungo termine? Si va dalle “difficoltà a camminare, alla fragilità nelle attività della vita quotidiana. Alzarsi o vestirsi diventano problemi, e anche fatica, stanchezza, difficoltà di concentrazione sono elementi comuni”, spiega Laura Simoncini, direttrice di Medicina riabilitativa e neuroriabilitazione dell’ospedale. In questo modo “riscontriamo i dati della letteratura, quindi delle pubblicazioni che sono già state analizzate: circa il 40% dei pazienti a distanza di mesi presentano esiti neurologici che vanno dal lieve al molto disabilitante, come l’impossibilità a camminare o ad essere autonomi nella vita quotidiana”. Ma c’è anche l’aspetto psicologico che viene considerato tra gli strascichi più impattanti nel dopo malattia. “Disturbi d’ansia, disturbi depressivi e sintomatologia post traumatica da stress. Dai racconti che arrivano dai pazienti sono legati a sogni vissuti all’interno della terapia intensiva“, aggiunge Elisa Righini, psicoterapeuta del dipartimento Emergenza e urgenza interaziendale. I pazienti parlano di”esperienze, vissute quasi come una lucida realtà, e che durante il ricovero hanno fatto fatica a dissociare dalla vera esperienza reale. C’è chi sogna battaglie, chi rituali satanici, chi terrorismo… la coscienza molto spesso ha creato ‘mostri’ importanti da dover combattere“, elenca Righini.

Secondo gli esperti, la causa di queste sensazioni potrebbe essere causata dalla condizione di isolamento “non solo dalle famiglie ma anche di mancanza di esperienza relazionale con gli operatori, tra distanze e vestizioni”. Non a caso, “tra le esperienze più positive che i pazienti raccontano ci sono quel po’ di relazioni che sono riusciti ad agganciare con gli operatori, quando sono riusciti a entrare in contatto con le famiglie, con le videochiamate, ma anche con le visite, che abbiamo cercato di mantenere più possibile. Riuscire a entrare in contatto, anche per un attimo, ha dato loro una motivazione maggiore nel cercare di farcela. Questo ci sta ancora di più incoraggiando a valorizzare questi aspetti”, conclude Righini alla Dire (www.dire.it).