Sudan, al via all’Aia il processo per il genocidio nel Darfur: “Primo passo per la verità”. Imputato Abd-al-Rahman, uno dei capi delle milizie Janjaweed
La giustizia per le violenze del conflitto in Darfur sarà sempre incompleta finché a essere giudicati “non saranno anche l’ex presidente Omar al-Bashir e i vertici militari del suo regime, compreso l’attuale presidente Abdel Fattah al-Burhan, veri pianificatori di quei massacri”. Così, all’agenzia Dire (www.dire.it), un attivista sudanese per la difesa dei diritti umani dopo la prima udienza del processo presso la Corte penale internazionale dell’Aia di un ex capo di una milizia paramilitare attiva durante la guerra in Darfur, a partire dal 2003.
Ali Muhammad Ali Abd-al-Rahman, questo il nome dell’imputato al processo iniziato oggi a l’Aia, è stato uno dei capi dei Janjaweed, i “diavoli a cavallo”, una milizia filo-governativa fra le protagoniste del conflitto nella regione occidentale del Darfur che, stando a stime delle Nazioni Unite, ha provocato circa 400mila morti.
L’ex comandante, trasferito alla Corte dell’Aia nel 2020 dopo l’arresto in Repubblica Centrafricana, si è dichiarato oggi “non colpevole” rispetto a tutti i 31 capi di accusa nei suoi confronti, che includono diversi crimini di guerra e contro l’umanità.
“Respingo tutte queste accuse” ha detto al-Rahman. L’ex capo milizia, 72 anni, è la prima personalità a processo per le violenze in Darfur, cominciate nel 2003. Tra i 31 capi di accusa nei suoi confronti figurano uccisioni commesse nei villaggi di Bindisi, Kodoom e Deleig e nei distretti di Mukjar e Wadi Salih, nel Darfur occidentale.
In relazione alle violenze nella regione è ricercato dalla Corte penale internazionale anche l’ex presidente sudanese Omar Hassan Al-Bashir, accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. L’ex capo di Stato è attualmente agli arresti nella capitale Khartoum.
La tesi dell’attivista per i diritti umani di Khartoum è che l’udienza di oggi è “solo il primo passo di un viaggio lungo mille chilometri”. Infatti, “la più grande e la peggiore delle milizie del Sudan sono le forze armate, di cui le stesse Janjaweed sono state solo uno strumento”.
L’attivista parla anche di Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemetti, attuale vicepresidente del Sudan, prima tra i leader dei Janjaweed e poi capo delle Rapid Security Forces (Rsf) nate dalla loro dissoluzione nel 2013. “E’ stato al-Burhan che ha creato e sostenuto queste milizie”, dice in riferimento al presidente, unico uomo al comando del Paese dal colpo di Stato dello scorso 25 ottobre. Sarebbe proprio sua quindi, secondo l’attivista, “la mano spietata dietro a quanto successo in Darfur”.
La questioneè anche territoriale: i cittadini della regione occidentale, “miliziani compresi”, sarebbero “vittime delle elitè di alcuni Stati del nord e del centro, come l’attuale capo dello Stato e l’ex presidente al-Bashir”, entrambi nativi dello Stato settentrionale del Nilo.
L’ex presidente è stato al potere per 30 anni, fino a quando una rivolta popolare e un intervento dell’esercito non hanno messo fine al suo governo nel 2019. L’esecutivo di transizione sorto dopo questa fase aveva deciso l’agosto scorso di consegnare al-Bashir alla Corte penale internazionale. L’organismo di base nei Paesi Bassi ha spiccato il primo mandato di arresto nei confronti dell’ex presidente nel 2009. Il processo di estradizione non è però andato avanti e ora il golpe di ottobre ha fatto ricadere il Paese in una fase di insicurezza segnata da proteste quasi quotidiane e dalla repressione delle forze di sicurezza, con decine di morti da ottobre a oggi.
“Chi è al potere ora non vuole consegnare al-Bashir – dice l’attivista – ma noi faremo di tutto affinché organismi internazionali facciano pressione a Khartoum per l’estradizione”.