Su TikTok arriva la “Boiler challenge cup”: vince chi seduce la più grassa. A spiegare la perversione e la cattiveria di questa sfida è la psicologa Paola Medde
Ragazze in sovrappeso, soprannominate per l’occasione ‘boiler’. Sono loro le vittime, involontarie e inconsapevoli, della nuova challenge lanciata su TikTok che dovrebbe partire dal prossimo 21 giugno: la ‘Boiler challenge cup’, in cui a vincere sarà il ragazzo che porterà a letto la più grassa. Sui social sono già iniziati scambi tra i partecipanti che si confrontano sulle vittime individuate, con commenti pesantissimi sul corpo delle ignare ragazze.
“La scelta, come vittime della challenge di ragazze sovrappeso, implica un doppio livello di umiliazione per queste giovani donne: il primo è quello legato al fatto che la seduzione si riveli un gioco e non il frutto di un interesse reale. Il secondo, forse il più pesante, è legato al fatto che i ragazzi protagonisti in realtà non sceglierebbero mai queste ragazze. Queste ultime quindi vengono poi additate come delle sciocche e ridicole per aver creduto di poter interessare a dei ragazzi”. A spiegare la perversione e la cattiveria che sottostanno a questa nuova challenge social è Paola Medde, psicologa, psicoterapeuta e consigliere dell’ordine degli Psicologi del Lazio, raggiunta dalla Dire (www.dire.it) proprio per commentare l’ultimissima sfida nata su TikTok.
“Le challenge- spiega l’esperta- attingono a un istinto primordiale. La sfida è proprio un modello di interazione sociale, basato sul sistema motivazionale della competizione. In generale- ricorda- noi agiamo secondo cinque diversi sistemi motivazionali: attaccamento, cura, cooperazione, competizione e sessualità. L’interazione attraverso la competizione è un modo per avere un accreditamento sociale in un contesto più ampio rispetto al gruppo ristretto (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari). In quest’ultimo gruppo, infatti, si agisce secondo il principio della cooperazione perché c’è l’influenza dell’affettività. Invece, i gruppi cosiddetti secondari, meno personali, si organizzano intorno a un’attività o a un compito o a uno scopo, proprio come nel caso delle challenge”.
Avere uno scopo intorno al quale organizzare un gruppo non dovrebbe però autorizzare ad agire a scapito di qualcun altro: “Non dovrebbe- ammette Medde- ma il fatto che la challenge sia a scapito di qualcuno non ha alcun valore per gli appartenenti al gruppo, perché quello che li tiene legati è la sfida insieme alle sue regole. E la vittima della sfida non fa parte del gruppo, è qualcuno che non merita rispetto”.
Cosa attrae tanto gli adolescenti delle challenge e delle sfide in generale? “La forza delle challenge nei gruppi di ragazzi dipende dal fatto che in adolescenza c’è bisogno della competizione proprio per definire se stessi, per differenziarsi dal mondo degli adulti. Il punto è che con i social, oggi, il gruppo secondario si è ampliato a dismisura. Al loro interno nascono comunque dei rapporti, basati su uno scopo, ma estremamente poco personali. Il più delle volte, infatti, i partecipanti alle challenge neanche si conoscono, non si sono mai visti”.
Sapere di poter commettere azioni che violano addirittura delle leggi non ferma questi ragazzi? “Il fatto che chi lancia la sfida è sconosciuto e anonimo- spiega la psicoterapeuta- rafforza la sensazione di non poter essere scoperti. I ragazzi sono retti insieme dal bisogno di partecipare alla sfida e di alimentare la competizione. Nel momento in cui il gruppo è tenuto insieme da queste motivazioni, le motivazioni del singolo non hanno più valore. È per questo che in gruppo o all’interno dei fenomeni di massa ciascun componente arriva a fare cose che non farebbe mai da solo. Il gruppo è qualcosa di più della semplice somma delle parti e agisce con dinamiche e motivazioni che a volte superano i limiti del singolo. La forza dei gruppi che condividono le challenge è che il gruppo ti dà la forza di superare i limiti di ciò che non si potrebbe fare”.
Come porre, dunque, un argine a questi fenomeni che mettono a rischio i ragazzi, a volte sul piano giudiziario, talvolta anche dell’incolumità fisica propria e altrui? “Questo è un processo ormai inarrestabile, di fronte al quale l’unico argine che si può porre è il ritorno alle piccole comunità, ai gruppi di primo livello. È chiaro che più le agenzie educanti fanno sentire i ragazzi parte di un sistema con cui possono interagire faccia a faccia e tramite il quale possono identificarsi e guadagnare la propria autostima e meno avranno bisogno di farlo col gruppo più allargato. Bisognerebbe tornare al muretto, agli oratori, agli scout. Questi luoghi, in passato, hanno funzionato in modo efficace contro le devianza, perché consentivano di sentire la forza del gruppo ma nei limiti di ciò che è consentito. Tanto più spazio vuoto lasciamo ai ragazzi, tanto più lasciamo che i ragazzi lo riempiano con queste modalità di relazione. Questo- tiene a ribadire l’esperta- non significa che dobbiamo riempire completamente le giornate dei ragazzi, perché farlo avrebbe un potere distrattivo e non educativo, ma dedicare loro uno spazio della giornata e un luogo in cui possano trovare al contempo identificazione, autostima, sfida e competizione sana, meno rischiosa dello spazio sconfinato anonimo e privo di morale che è il mondo dei social. I processi che stanno alla base di questi fenomeni- aggiunge Medde- sono spesso sconosciuti al mondo degli adulti. Questa volta, averlo scoperto in anticipo, dovrebbe servire non solo a interpretarlo, ma anche a mandare dei segnali precisi a questi ragazzi riguardo a eventuali punizioni, rischi o conseguenze. Altrimenti rischiamo di portare avanti fenomeni e interpretazioni che poi non portano ad alcuna attivazione pratica da parte della società”.
Un’ultima annotazione, la psicoterapeuta la fa sulle responsabilità del mondo degli adulti: “Noi adulti abbiamo una responsabilità in questo processo, perché cresciamo questi ragazzi sempre più con la convinzione di doversi dare da fare ed essere i migliori fin da piccolissimi e questo alimenta la competizione. Lo spazio di accudimento si va riducendo, mentre aumenta lo stimolo a emergere, a essere visibili. Ma questo poi viene letto in modi diversi dai ragazzi rispetto agli adulti”, ammonisce in conclusione.