Mielofibrosi: secondo nuovi studi l’aggiunta di navitoclax a ruxolitinib migliora la fibrosi del midollo osseo
Nei pazienti con mielofibrosi che sono andati incontro a progressione o hanno avuto una risposta subottimale a una precedente monoterapia con l’inibitore orale di JAK1/2 ruxolitinib, il trattamento con la combinazione di navitoclax (un inibitore di BCL-XL/BCL-2) e ruxolitinib ha migliorato la fibrosi del midollo osseo e ridotto la frequenza degli alleli delle varianti dei geni driver (variant allele frequency, VAF). Lo documentano nuovi risultati dello studio di fase 2 REFINE (NCT03222609), presentati al recente convegno annuale dell’American Association on Cancer Research (AACR).
Inoltre, si è visto che il raggiungimento di questi risultati è correlato con un miglioramento della sopravvivenza. Infatti, nei pazienti in cui la fibrosi del midollo osseo è migliorata di almeno un grado, la sopravvivenza globale (OS) mediana non è stata raggiunta (NR), mentre è risultata di 28,5 mesi nei pazienti che non hanno avuto questo miglioramento (IC al 95% 19,6-NR; P < 0,01).
Analogamente, l’OS mediana è risultata più lunga in quei pazienti che hanno ottenuto una riduzione del 20% o superiore della VAF rispetto a coloro in cui non si è osservata una riduzione di questo parametro (NR contro 28,5 mesi, rispettivamente; P = 0,05).
In più, nei pazienti che hanno mostrato un miglioramento della fibrosi del midollo osseo o riduzione della VAF non è stato registrato alcun decesso.
«L’associazione tra il miglioramento della fibrosi del midollo osseo e della VAF e una sopravvivenza più lunga fa pensare che la combinazione dei due farmaci sia in grado di modificare la malattia», scrivono nel poster presentato al congresso Naveen Pemmaraju, dello University of Texas MD Anderson Cancer Center di Houston, e gli altri autori. «Nei pazienti con mielofibrosi, il regime navitoclax più ruxolitinib ha prodotto risultati migliori indipendentemente dallo stato dell’HMR [alto rischio molecolare]» aggiungono i ricercatori.
Ruxolitinib inefficace sulla biologia della malattia
Gli studi precedenti e l’esperienza clinica hanno dimostrato che il trattamento con ruxolitinib riduce la splenomegalia e i sintomi sistemici associati alla mielofibrosi, ma non incide sui meccanismi fisiopatologici della malattia, che rimangono per lo più invariati.
Infatti, dopo circa 3 anni di trattamento con ruxolitinib, in genere la metà dei pazienti interrompe la terapia e, una volta interrotto il farmaco, la prognosi è infausta.
I pazienti con mielofibrosi con mutazioni di geni quali ASXL1, EZH2, IDH1/2, SRSF2 e U2AF1 Q157, la cui presenza identifica una categoria ad alto rischio molecolare (HMR), presentano un rischio maggiore di andare incontro a trasformazione leucemica della malattia o a morte prematura. È stato suggerito che l’inversione della fibrosi del midollo osseo e la riduzione della VAF siano prove di un cambiamento della malattia; tuttavia, non era ancora stato chiarito pienamente se il raggiungimento di questi obiettivi si traducesse effettivamente in un beneficio clinico e, viceversa, servono prove che si ottenga un beneficio di sopravvivenza per poter sostenere che si tratta di una modificazione della malattia realmente significativa da un punto di vista clinico.
Lo studio REFINE
Pemmaraju e i colleghi hanno, quindi condotto lo studio REFINE, un trial multicentrico, in aperto, per valutare l’efficacia di navitoclax, da solo o in combinazione con ruxolitinib, nella riduzione del volume della milza in pazienti con mielofibrosi che sono progrediti o hanno ottenuto una risposta subottimale dopo almeno 12 settimane di monoterapia con ruxolitinib.
Poiché nei pazienti che hanno raggiunto una riduzione del volume della milza ≥ 35% (SVR35) sono stati spesso osservati miglioramenti della fibrosi del midollo osseo, gli sperimentatori hanno cercato di capire se il beneficio di sopravvivenza osservato fosse correlato alla risposta legata eventualmente alla modifica della malattia.
L’analisi presentata all’AACR si riferisce ai risultati delle analisi esplorative relative alla fibrosi del midollo osseo, alla VAF e alla presenza di un HMR nei primi pazienti trattati con la combinazione (34) e come questi sono correlati agli endpoint di efficacia.
Tutti i pazienti hanno ricevuto almeno una dose di navitoclax, iniziando con 50 mg/die e aumentando il dosaggio fino a 300 mg al giorno in base alla tollerabilità, più ruxolitinib alla dose che già stava assumendo il paziente.
La fibrosi del midollo osseo è stata valutata localmente, mentre la VAF del gene driver, JAK2 o CALR, è stata valutata in modo centralizzato mediante sequenziamento di ultima generazione (NGS) su sangue al basale e a 24 settimane.
Le caratteristiche dei pazienti
L’età mediana dei pazienti era di 68 anni (range: 42-86), circa due terzi erano uomini e i partecipanti avevano un performance status ECOG pari a 0 o 1 (rispettivamente il 47% e il 53%).
Il volume mediano della milza era di 1695 cm3 (range: 466-5047) e il 52% dei pazienti aveva tre o più geni mutati, il 79% era portatore di mutazioni di JAK2 e il 21% aveva il gene CALR mutato. Nei pazienti portatori di mutazioni che conferiscono un HMR, il 68% aveva ASXL1 mutato, il 37% SRSF2 mutato, il 21% EZH2 mutato, il 5% U2AF1 mutato, il 5% presentava mutazioni di IDH1/2 e il 42% dei pazienti era portatore di mutazioni in due o più geni correlati all’HMR, se mutati.
La durata mediana della precedente esposizione a ruxolitinib era di 91 settimane (range: 19-391).
Miglioramento della fibrosi e riduzione della VAF
Dei 32 pazienti (su 34) nei quali si è potuta valutare la fibrosi del midollo osseo, il 38% ha ottenuto un miglioramento di almeno un grado del parametro in qualsiasi momento dello studio, mentre il 13% ha ottenuto addirittura un miglioramento di almeno due gradi.
Dei 26 pazienti che risultavano valutabili per la variazione della VAF, di cui 19 erano portatori di mutazioni di JAK2 e sette di mutazioni di CALR, il 23% ha raggiunto una riduzione di almeno il 20% a 24 settimane.
Inoltre, cinque pazienti hanno ottenuto sia una riduzione della fibrosi del midollo sia una riduzione della VAF.
Complessivamente, 17 pazienti hanno interrotto il trattamento con navitoclax, sei dei quali a causa della progressione della malattia, due perché sono stati sottoposti al trapianto, due perché deceduti, uno per decisione del medico e uno per il deterioramento della qualità di vita. Il follow-up mediano nei sopravvissuti è stato di 26,2 mesi (range: 6,7-36,4).
Le informazioni sul rischio molecolare erano disponibili per 33 pazienti (su 34) e il 58% di questi è stato considerato ad alto rischio molecolare. Sia in questo gruppo e sia in quello dei pazienti considerati non ad alto rischio, l’OS mediana non è stata raggiunta e non si è osservata una differenza statisticamente significativa di questo parametro fra i due gruppi (P = 0,45).
Bibliografia
N. Pemmaraju, et al. Addition of navitoclax to ruxolitinib mediates responses suggestive of disease modification in patients with myelofibrosis previously treated with ruxolitinib monotherapy. AACR 2022; abstract LB108. Link