Rucaparib aumenta la sopravvivenza libera da progressione nelle donne con carcinoma ovarico avanzato che hanno risposto alla chemioterapia di prima linea a base di platino
Nelle donne con carcinoma ovarico avanzato che hanno risposto alla chemioterapia di prima linea a base di platino, il mantenimento con il PARP-inibitore rucaparib permette di migliorare in modo significativo la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e il beneficio del farmaco si osserva in un’ampia popolazione di pazienti. Lo dimostrano i risultati dello studio di fase 3 ATHENA-MONO (NCT03522246), appena presentati al congresso annuale dell’American Society for Clinical Oncology (ASCO), a Chicago, e pubblicati in contemporanea sul Journal of Clinical Oncology (Jco).
Il beneficio di PFS prodotto da rucaparib si è riscontrato, infatti, in tutti i sottogruppi, sia nell’analisi primaria sia nelle analisi esplorative e, in particolare, il farmaco ha dimostrato la sua efficacia sia nella popolazione che presentava un deficit della riparazione dei danni del DNA mediante ricombinazione omologa (pazienti HRD-positive, o HRD+) sia in quella senza tale deficit (pazienti HRD-negative, o HRD-) sia nella popolazione ITT.
Nonostante in questo studio non sia stata effettuata una selezione delle pazienti eccessivamente stringente, il beneficio di rucaparib ha interessato tutta la popolazione analizzata, aumentando di oltre due volte e mezzo la PFS nella coorte di pazienti HRD+ e più che raddoppiandola nella popolazione ITT.
Nella coorte di pazienti HRD+, la terapia di mantenimento con rucaparib ha prolungato di oltre un anno e mezzo (17,4 mesi) la PFS valutata dagli sperimentatori, riducendo del 53% il rischio di progressione o decesso rispetto al placebo.
Nella popolazione Intention-To-Treat (ITT), il prolungamento della PFS ottenuto con rucaparib rispetto al placebo è risultato di circa un anno, con una riduzione del 48% del rischio di progressione o morte.
«Le pazienti con malattia misurabile al basale hanno ottenuto un’ulteriore riduzione del tumore con rucaparib. Inoltre, il profilo di sicurezza del farmaco e la sua maneggevolezza sono risultati coerenti con quelli degli studi precedenti», ha affermato il primo firmatario dello studio, Bradley J. Monk, professore presso la Divisione di oncologia ginecologica presso l’Università dell’Arizona, nonché direttore medico del programma ginecologico presso la US Oncology Research Network.
«Nello studio vi era un 10% di donne che avevano una malattia misurabile al momento della randomizzazione (pazienti che avevano mostrato una risposta parziale alla chemioterapia con platino, ndr) e anche in questo sottogruppo si è osservato un tasso di risposte altissimo, superiore al 50%» ha sottolineato ai microfoni di PharmaStar una delle autrici principali dello studio, Domenica Lorusso, Professore Associato di Ostetricia e Ginecologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Responsabile dell’UOS di Programmazione Ricerca Clinica della Fondazione Policlinico Universitario ‘A. Gemelli’ IRCCS di Roma. In queste pazienti, il mantenimento con rucaparib ha permesso un approfondimento delle risposte, con una riduzione ulteriore della massa tumorale, anche nel sottogruppo HRD-.
«Questo significa che se una paziente inizia il mantenimento con ancora una malattia misurabile dopo la chemio di prima linea va rassicurata, perché la terapia non ha solo funzione di mantenimento, ma rucaparib è un farmaco attivo, che continua ad agire e ha almeno un 60% di probabilità di indurre una risposta sulla malattia residua» ha aggiunto Lorusso.
PARP-inibitori efficaci come mantenimento
Illustrando il razionale dello studio, Monk ha ricordato che la terapia di mantenimento può ritardare la comparsa di una recidiva o la progressione della malattia nelle pazienti con tumore ovarico che hanno risposto in modo completo o anche parziale alla chemioterapia a base di platino.
In studi precedenti (per esempio, PAOLA-1 e PRIMA) si è visto che l’efficacia del mantenimento con un PARP-inibitore varia in base alle caratteristiche molecolari del tumore: è massima nelle pazienti portatrici di mutazioni dei geni BRCA1/2, intermedia nelle pazienti HRD+ e inferiore nelle pazienti HRD-.
Nello studio ARIEL3, in cui rucaparib è stato utilizzato nelle pazienti recidivate, come mantenimento dopo la chemioterapia di seconda linea, il farmaco ha mostrato di migliorare in modo significativo la PFS rispetto al placebo indipendentemente dal risultato del test dell’HRD (positivo o negativo).
Vista l’ampia efficacia di rucaparib nel setting della recidiva, Monk e i colleghi hanno ipotizzato che questi PARP-inibitore potesse essere efficace come terapia di mantenimento dopo la chemio di prima linea in una popolazione diversificata di pazienti con tumore ovarico di nuova diagnosi, e lo hanno verificato nello studio ATHENA.
Lo studio ATHENA
ATHENA (NCT03522246) è uno studio multicentrico internazionale, randomizzato e controllato, in doppio cieco, a cui anche l’Italia ha dato un contributo fondamentale con i centri del gruppo cooperativo MITO. Gli sperimentatori hanno arruolato circa 1000 donne con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado, delle tube di Falloppio o peritoneale primario di nuova diagnosi, in stadio avanzato (III-IV), che erano state sottoposte all’intervento chirurgico di citoriduzione e avevano completato la chemioterapia di prima linea con una doppietta a base di platino, ottenendo una risposta (completa o parziale). Le partecipanti potevano essere HRD+ o HRD- e non vi erano restrizioni relativamente al risultato della chirurgia (era ammessa sia la resezione completa, R0, sia la presenza di residuo di malattia).
Le pazienti sono state randomizzate in quattro bracci, secondo un rapporto 4:4:1:1: il braccio A è stato trattato con rucaparib 600 mg due volte al giorno (bid) più l’immunoterapia con l’anti-PD-1 nivolumab alla dose di 480 mg; il braccio B con rucaparib 600 mg bid (e un placebo ev); il braccio C con nivolumab 480 mg (e un placebo orale); il braccio D con un placebo orale e un placebo ev. Le partecipanti sono state trattate per un massimo 24 mesi o fino alla progressione radiografica, al manifestarsi di una tossicità inaccettabile o all’interruzione per altri motivi.
Dopo la randomizzazione lo studio è stato suddiviso in due parti e nell’ATHENA-MONO, presentato al congresso, si sono confrontati il braccio B (circa 400 pazienti) e il braccio D (circa 100 pazienti). La seconda parte è costituita dallo studio ATHENA-COMBO, nel quale si confrontano il braccio A e il braccio B. «I dati dello studio ATHENA-COMBO dovrebbero maturare nel giro di circa un anno, un anno e mezzo», ha detto Lorusso.
«Il braccio C, quello assegnato al solo nivolumab, non verrà analizzato. Nell’ATHENA-MONO, il braccio di rucaparib è quello sperimentale, mentre nell’ATHENA-COMBO, il braccio sperimentale è quello trattato con la combinazione di rucaparib più nivolumab e il braccio di controllo quello trattato con rucaparib più placebo», ha spiegato Monk.
Analisi gerarchica della PFS
L’endpoint primario per l’intero studio è la PFS valutata dagli sperimentatori, che è stata misurata con un procedimento gerarchico, prima nella popolazione di pazienti HRD+, che comprendeva sia pazienti con mutazioni di BRCA sia pazienti con i geni BRCA wild-type, ma con elevata perdita di eterozigosi (Loss of Heterozygosity, LOH); dopo che le analisi hanno evidenziato una differenza significativa fra il braccio trattato con rucaparib e il braccio di controllo in questo gruppo, gli sperimentatori sono passati a valutare la PFS nella popolazione ITT, comprendente tutte le pazienti.
In base al disegno statistico dello studio, i valori di Hazard Ratio (HR) previsti erano 0,45 per il gruppo di pazienti HRD+ e 0,60 per la popolazione ITT.
Le caratteristiche delle pazienti
Riguardo alle caratteristiche delle pazienti, ha spiegato Monk, in entrambi i bracci la maggior parte non era portatrice di mutazioni di BRCA (il 78,7% nel braccio rucaparib e il 78,4 nel braccio di controllo).
«Lo studio ATHENA-MONO è quello con la più alta percentuale di pazienti con BRCA wild-type (78,6%) e con tumori HRD- (44,2%) fra gli studi di fase 3 che hanno valutato il mantenimento con un PARP-inibitore in prima linea, il che corrobora l’efficacia del mantenimento con rucaparib in pazienti tipicamente ritenute meno sensibili ai PARP-inibitori» scrivono Monk e i colleghi sul Jco.
Inoltre, a differenza di altri trial, sono state arruolate anche pazienti in stadio III della classificazione FIGO che erano sottoposte a una resezione ottimale e non avevano residuo di malattia dopo la chirurgia citoriduttiva, una popolazione che può essere considerata più rappresentativa di quella che si incontra nella pratica clinica rispetto ad altri studi.
Beneficio di PFS con rucaparib sia nel gruppo HRD+ sia nella popolazione ITT
«Lo studio è positivo ha centrato in pieno il suo endpoint primario», ha detto Lorusso. Infatti, il mantenimento con rucaparib ha migliorato in modo significativo la PFS sia nel gruppo di pazienti HRD+ sia nella popolazione ITT.
Nel gruppo di pazienti HRD+, la PFS mediana valutata dagli sperimentatori è risultata di 28,7 mesi (IC al 95% 23,0-NR) nel braccio trattato con rucaparib, a fronte di 11,3 mesi (IC al 95%, 9,1-22,1) nel braccio placebo, con una riduzione del 53% del rischio di progressione o decesso nel braccio sperimentale (HR 0,47; IC 95% , 0,31-0,72; P = 0,0004).
Il tasso di PFS a 12 mesi è risultato del 73,8% con rucaparib e 47,7% con il placebo, mentre il tasso di PFS a 24-mesi è risultato del 56,3% contro 35,0%.
Nella popolazione ITT, la PFS mediana valutata dagli sperimentatori è risultata di 20,2 mesi (IC al 95% 15,2-24,7) con rucaparib e 9,2 mesi (IC al 95% 8,3-12,2) con il placebo, con una riduzione del 48% del rischio di progressione o decesso nel braccio trattato con il PARP-inibitore (HR 0,52; IC al 95% 0,40-0,68; P < 0,0001).
Centrato anche l’endpoint secondario
Un endpoint secondario dello studio era la PFS valutata in modo centralizzato da revisori indipendenti in cieco (BICR). Anche in quest’analisi, il mantenimento con rucaparib ha confermato il suo beneficio rispetto al placebo, sia nel gruppo di pazienti HRD+ sia nella popolazione ITT.
Nel gruppo HRD+, infatti, la PFS mediana valutata mediante BICR non è stata raggiunta (NR) nel braccio rucaparib (IC al 95% 28,7-NR), mentre è risultata di 9,9 mesi (IC al 95% 6,5-NR) nel braccio di controllo (HR 0,44; IC al 95%, 0,28-0,70; P = 0,0004).
Nella popolazione ITT, l’analisi mediante BICR ha evidenziato una PFS mediana di 25,9 mesi (IC 95%, 16,8-NR) con rucaparib, a fronte di 9,1 mesi (IC al 95% 6,4-9,7) nel braccio placebo (HR 0,47; IC al 95% 0,36-0,63; P < 0,0001).
Beneficio di rucaparib in altri sottogruppi
Nell’analisi per sottogruppi esplorativa della PFS valutata dagli sperimentatori, rucaparib ha continuato a dimostrare un vantaggio consistente rispetto al placebo, indipendentemente dalla presenza di mutazioni di BRCA (HR 0,40; IC al 95% 0,21-0,75), di livelli elevati di LOH (HR 0,58; IC al 95% 0,33-1,01) o di negatività dell’HRD (HR 0,65; IC al 95% 0,45-0,95). I dati sono risultati simili nei sottogruppi valutati mediante BICR.
«L’analisi … sulla base dello stato dell’HRD indica che il miglioramento della PFS osservato nella popolazione ITT con rucaparib non è stato determinato solamente dai sottogruppi con BRCA mutato o con HRD, ma si è osservato un beneficio sostanziale di rucaparib anche nelle pazienti HRD-» scrivono gli autori sul Jco.
Miglioramento dei tassi di risposta con rucaparib
Il mantenimento con rucaparib ha dimostrato di migliorare notevolmente anche il tasso di risposta obiettiva (ORR) rispetto al placebo.
Nelle pazienti HRD+, l’ORR valutato dallo sperimentatore è risultato del 58,8% (IC al 95% 32,9%-81,6%) nel braccio trattato con il PARP-inibitore contro 20,0% (IC al 95% 0,5%-71,6%) nel braccio di controllo (tutte risposte parziali) e la durata mediana della risposta (DOR) è risultata rispettivamente di 16,7 mesi contro 5,5 mesi.
Nella popolazione ITT, l’ORR è risultato più basso rispetto al gruppo HRD+, ma sempre a favore del braccio rucaparib: rispettivamente 48,8% (IC al 95% 32,9%-64,9%) contro 9,1% (IC al 95% 0,2%-41,3%), mentre la DOR mediana è risultata rispettivamente di 22,1 mesi e 5,5 mesi.
Profilo di sicurezza e maneggevolezza confermati
Il profilo di sicurezza di rucaparib nello studio ATHENA–MONO è risultato coerente con quello osservato in altri setting e con altri PARP inibitori nel mantenimento di prima linea, ha riferito Monk. Inoltre, il farmaco ha confermato la sua maneggevolezza.
«Circa il 55% delle pazienti trattate con rucaparib ha manifestato nausea o stanchezza, che nella quasi totalità dei casi, tuttavia, sono state di grado 1 o 2, e quindi non impattanti sulla vita quotidiana», ha spiegato Lorusso. «Inoltre, circa il 28% ha sviluppato anemia di grado 3, che è un effetto collaterale da sorvegliare e curare, se necessario».
Eventi avversi di grado 3 o superiore sono stati osservati nel 60,5% delle pazienti trattate con rucaparib e nel 22,7% dei controlli, mentre le interruzioni del trattamento o le riduzioni del dosaggio a causa di eventi avversi emergenti dal trattamento hanno avuto un’incidenza rispettivamente del 63,8% e 21,8%.
Tuttavia, è da sottolineare che la terapia con rucaparib consente di effettuare, se necessario, fino a tre riduzioni di dose (per un totale di quattro dosaggi raccomandati), senza che questo comprometta la dose cumulativa somministrata, indipendentemente dal peso e dall’età della paziente. Infatti, fino al mese 12 il 70% delle pazienti ha continuato a ricevere almeno 500 mg di rucaparib due volte al giorno, cioè più dell’80% della dose iniziale.
Gli eventi avversi più comuni di grado 3 o superiore che si sono verificati con rucaparib rispetto al placebo sono stati anemia o aumento dell’emoglobina (28,7% contro 0%,), neutropenia o diminuzione della conta dei neutrofili (14,6% contro 0,9%) e aumento dell’alanina aminotransferasi o aspartato aminotransferasi (10,6 % vs 0,9%).
«Si conferma, dunque, un aumento delle transaminasi di grado 3 in circa l’11% delle pazienti trattate con il PARP-inibitore, ma tale aumento non può essere considerato un segno di tossicità epatica, poiché questa prevede anche un aumento della bilirubina e delle gammaGT, che in questo studio non si è osservato» ha sottolineato la Professoressa. Infatti, non si sono registrate variazioni significative della bilirubina o aumento dei livelli di tossicità epatica indotta da farmaci.
Da segnalare anche che non sono state osservate differenze clinicamente significative fra i due bracci di trattamento nei Patient Reported Outcomes, a suggerire che la terapia di mantenimento con rucaparib non ha impattato negativamente sulla qualità di vita correlata alla salute rispetto al placebo.
Con rucaparib, meno interruzioni prima del termine del mantenimento
Al momento del cutoff dei dati (23 marzo 2022) il 12,4% delle 425 pazienti del braccio rucaparib era ancora in trattamento contro il 9,9% delle 110 pazienti del braccio di controllo e, rispettivamente il 63,5% contro 80,2% aveva interrotto il trattamento prima dei 2 anni previsti per la terapia di mantenimento. I principali motivi dell’interruzione sono risultati la progressione della malattia (41,0% contro 64,9%), eventi avversi (12,6% contro 5,4%) o il ritiro del consenso (4,9% contro 2,7%).
La durata mediana del trattamento, inoltre, è stata superiore con rucaparib: 14,7 mesi (95% CI, 0,1-32,7) contro 9,9 mesi, con una durata mediana del follow-up rispettivamente di 26,1 mesi (IC al 95% 25,8-26,9) e 26,2 mesi (IC al 95% 24,0-27,7).
Bibliografia
B.J. Monk, et al. ATHENA–MONO (GOG-3020/ENGOT-ov45): a randomized, double-blind, phase 3 trial evaluating rucaparib monotherapy versus placebo as maintenance treatment following response to first-line platinum-based chemotherapy in ovarian cancer. J Clin Oncol. 2022;40(suppl 17):LBA5500. doi:10.1200/JCO.2022.40.17_suppl.LBA5500. Link
B.J. Monk, et al. A Randomized, Phase III Trial to Evaluate Rucaparib Monotherapy as Maintenance Treatment in Patients With Newly Diagnosed Ovarian Cancer (ATHENA–MONO/GOG-3020/ENGOT-ov45). J Clin Oncol. 2022; doi: 10.1200/JCO.22.01003. Link