La sezione espositiva “Naturalia e Mirabilia” si arricchisce di un nuovo reperto: un dente di narvalo già presente nelle collezioni gonzaghesche
Finalmente è giunto! Fino alla metà del Seicento del narvalo – cetaceo dei mari del nord – non si sospettava l’esistenza, quantomeno in Italia, e la sua lunga zanna che si avvita come un cavatappi, passava per essere il corno del misterioso e mitologico unicorno. Il celebre “monoceros”, del quale si scriveva sin dall’antichità: almeno dal V secolo a.C., quando Ctesia di Cnido, medico di Artaserse II Mnemone re di Persia, scrisse che nell’Indostan – pianura alluvionale percorsa dai fiumi Gange e Indo – viveva questa specie di asino dal vello bianco e dalla testa purpurea sulla quale spiccava un unico corno, bianco nella parte vicina alla testa, nero nella centrale e cremisi verso la punta. Da allora, le descrizioni si moltiplicarono e l’unicorno divenne uno splendido cavallo bianco con un corno in fronte. Secondo altre descrizioni – fermo restando il corno – poteva avere fattezze di asino e persino di caprone. Si affermò stabilmente la tendenza a descriverlo bianco, candido, anche perché l’animale prese un significato simbolico legato alla purezza.
Il corno divenne anche sinonimo di potere. Il “Trono della Consacrazione” dei reali di Danimarca, nel Castello di Rosenborg a Copenaghen, è costruito in gran parte utilizzando questi corni. Essi non potevano mancare neppure nelle corti rinascimentali italiane. Isabella d’Este esibiva nella sua Grotta «una corna di alicorno longa palmi sette e mezo, la quale è posta sopra l’armarii, suso duoi rampini torti de fuora via» e questo corno era stimato il più bello in Europa, assieme all’esemplare in possesso di re Sigismondo di Polonia. Il valore dell’oggetto era legato alla sua rarità, alla sua origine misteriosa, al suo intrinseco valore allegorico e alle sue presunte proprietà terapeutiche. Il corno, infatti, se polverizzato, era ritenuto secondo la medicina del tempo il miglior antidoto possibile contro il veleno.
Anna Visconti (terza moglie di Francesco I Gonzaga) riceveva nel febbraio del 1404 un «petius de alicorno, cum catenella de argento», forse lo stesso finito qualche anno dopo a Paola Malatesta, sposa di Gian Francesco Gonzaga, e descritto come «unum frustrum ossii de unicorno fulcitum argento, cum una chatenela alba», ossia un pezzo d’osso d’unicorno ornato d’argento, con una catenella bianca. Il corno assumeva un significato allegorico e stava a significare l’irreprensibilità morale di colei che lo possedeva. Non per nulla Cecilia Gonzaga fu effigiata in una medaglia di Pisanello accanto a un “liocorno” (altro nome per indicare l’unicorno).
In Palazzo Ducale troviamo almeno tre rappresentazioni della creatura fantastica. Un affresco nel camerino degli Uccelli, in Corte Nuova, databile al 1570 circa; nello stemma della famiglia Petrozzani, sulla campana esafinestrata datata 1593 (corridoio di Santa Barbara) e nell’Età dell’Oro di Sante Peranda, dei primi del Seicento, ora nella sala del Labirinto.
Fu nel corso del Seicento che l’oggetto perse progressivamente il suo valore mitico. Il medico danese Olaus Worm spezzò l’incantesimo nel 1655, seguito poi da altri studiosi: gli unicorni non esistono! Si tratta invece del dente del narvalo, un cetaceo che abita i mari del Nord e i cui esemplari maschi possiedono un dente che fuoriesce dal labbro superiore per formare una zanna della lunghezza anche superiore ai due metri. Ma Isabella d’Este non lo sapeva e con lei non lo sapeva nemmeno Ulisse Aldrovandi, celebre naturalista vissuto nel secondo Cinquecento, il quale, nel 1571, vide e descrisse il pezzo mantovano: «Un unicorno della lunghezza di nove palmi … Fatto a spirale, è scanalato e contorto, di colore bianchiccio». Era dunque lungo 175-180 cm circa.
Queste zanne erano rinvenute spiaggiate sui litorali nordici, di solito senza teschio e carcassa dell’animale, il narvalo. Era quindi incomprensibile la sua origine e questo accresceva il suo valore. Secondo Ambroise Paré, medico del re di Francia, l’unicorno valeva più dell’oro (1582).
Il corno di unicorno, in ogni caso, più volte ammirato e studiato nel corso del Cinquecento e del primo Seicento, era uno dei maggiori vanti della collezione gonzaghesca di “naturalia e mirabilia”, oggi rievocata dall’esposizione permanente ospitata nella Galleria delle Metamorfosi di Palazzo Ducale. La nostra zanna, arrivata pochi giorni fa e già inserita nel percorso di visita del museo, è giunta dopo un lungo viaggio, con tanto di certificati che attestano come l’oggetto non derivi da caccia illecita. Gli Inuit possono cacciare il narvalo da agosto a ottobre e le zanne raccolte possono uscire dal Canada solo per ragioni particolari. Noi crediamo che le autorità canadesi non abbiano potuto resistere al fascino di Isabella d’Este ed ecco quindi che il “suo” corno, lungo proprio 178 cm, ora fa bella mostra di sé fluttuando sulle nostre teste nella Galleria delle Metamorfosi.
PALAZZO DUCALE DI MANTOVA
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