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Covid: poche prescrizioni di antivirali per i pazienti fragili

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Covid: nei pazienti fragili i nuovi antivirali come molnupiravir sono molto utili ma il numero di prescrizioni è ancora troppo basso

Da quando l’11 marzo 2020 fu decreta la pandemia come problema di salute globale, ci sono stati 531 milioni di casi, oltre 6 milioni di morti e un vaccino arrivato in tempi straordinariamente brevi, con quasi 12 miliardi di dosi somministrate nel mondo. Ne stiamo finalmente uscendo soprattutto grazie ai vaccini, agli anticorpi monoclonali e agli antivirali come molnupiravir, somministrato a oltre 27mila persone su un totale riportato da Aifa di 45mila somministrazioni di antivirali.

Purtroppo le prescrizioni di antivrali, nonostante rappresentino un’opzione terapeutica preziosa per ridurre le visite in pronto soccorso e le ospedalizzazioni, sono ancora decisamente basse. Se ne è partato in occasione dell’Italian Conference on Aids and Antiviral Research (ICAR) 2022.

L’evoluzione della pandemia: a che punto siamo 
Una pandemia si verifica quando, in presenza di un virus, l’equilibrio ospite-parassita viene completamente rotto a favore del parassita. Nel momento in cui arriva un microrganismo completamente nuovo, capace di trasmettersi facilmente da persona a persona, e vi è una popolazione suscettibile, il virus dilaga. Nel caso del Covid, grazie alle misure di contenimento ma soprattutto grazie ai vaccini, la popolazione si è immunizzata ed è stato in parte ripristinato l’equilibrio tra le nostre difese e l’aggressività del microrganismo.

Attualmente il virus è diventato endemico, ossia ha raggiunto con l’uomo una situazione di equilibrio tale da continuare a circolare perché la popolazione non è completamente protetta, ma lo è sufficientemente al punto che il virus provoca una malattia grave soltanto in alcuni casi. Il picco dei decessi ora è molto simile a quello precedente alla pandemia, in quanto il virus si è sostituito ad altre condizioni causa di morte nella popolazione fragile.

Confrontando fra i vari paesi europei l’eccesso di mortalità, ossia il maggior numero di decessi rispetto allo storico dei periodi pre-Covid, in Italia hanno fatto probabilmente la differenza la struttura sociale e le condizioni di salute della popolazione generale, ha spiegato Pietro Luigi Lopalco, epidemiologo e professore ordinario di igiene all’Università del Salento.

L’Italia aveva un’elevata prevalenza di persone anziane in cattive condizioni di salute, oltre a essere probabilmente il paese più densamente popolato in Europa, con strutture familiari diverse da altre nazioni e contatti sociali molto mescolati tra le varie fasce di età, come nel caso dei nonni che si prendono cura dei nipoti.

«Considerata l’efficacia elevata e inaspettata dei vaccini a mRna nei confronti delle diverse varianti del virus, ora che siamo “in tempo di pace” dobbiamo pensare ad alfabetizzare scientificamente la popolazione, attualmente a un livello bassissimo, e a non disperdere lo sforzo profuso come investimento sanitario (si veda la capacità vaccinale con la creazione degli hub) e attenzione politica» ha fatto presente Lopalco. «Abbiamo tanto da recuperare, anche in termini di vaccinazione, basti pensare che in Italia abbiamo ancora il morbillo e siamo uno degli ultimi paesi europei in cui circola abbastanza indisturbato. Oppure nei confronti del papilloma virus o della stessa influenza, la cui vaccinazione non è mai davvero decollata. Non solo, pensiamo che gli anziani nelle Rsa e molti degenti in ospedale ancora non possono vedere i parenti e si trovano nelle stesse condizioni in cui versavano durante la pandemia».

L’evoluzione del virus dagli albori dell’epidemia a oggi 
«Chi si infetta con il virus SARs-COV-2 e guarisce, può reinfettarsi solo con una variante differente che il nostro sistema immunitario ancora non è in grado di riconoscere e neutralizzare» ha spiegato Carlo Federico Perno, direttore di microbiologia e diagnostica di immunologia all’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma. «L’uomo in milioni di anni ha sviluppato alcuni enzimi che costringono i virus che entrano nel nostro organismo a mutare, perché la mutazione, a meno che non serva al virus per difendersi, è generalmente un evento sfavorevole alla sua sopravvivenza e riduce la sua capacità replicativa,

SARS-COV-2, in confronto al virus del raffreddore (1000 varianti) o dell’Hiv (140 varianti), muta molto poco (7 varianti a oggi) e, quando lo fa, la nuova variante non si aggiunge ma sostituisce la precedente.

Lo strumento che il virus usa per replicarsi è la polimerasi virale, un enzima contro il quale disponiamo di farmaci. L’antivirale orale da poco approvato, molnupiravir, agisce in modo particolare. Infatti non blocca ma agevola il virus nella replicazione, introducendo errori così da creare delle strutture mutate che riducono l’infettività del microrganismo.

Questa peculiarità rende difficile valutare l’efficacia del farmaco. Nell’Hiv l’efficacia degli antivirali viene misurata in funzione della riduzione della carica virale, che in questo caso non si riduce mentre invece diminuisce la capacità infettante.

«Il clinico ha diversi modi per valutare se una terapia funziona, come la presenza del microrganismo o la riduzione della carica virale, ma la risposta principale è lo stato di salute e la sopravvivenza del paziente» ha aggiunto il prof Massimo Andreoni, Direttore della UOC di Malattie infettive e Day Hospital, Dipartimento di Medicina, Policlinico Tor Vergata di Roma. «Per molnupiravir la valutazione si basa fondamentalmente sull’ospedalizzazione o meno del paziente, e viene pertanto utilizzato nei soggetti ad alto rischio di progressione della malattia, rischio che abbiamo imparato a conoscere con l’esperienza real life».

«Al Policlinico di Tor Vergata, tra le 150 persone ad alto rischio (su 278 totali) a cui abbiamo somministrato il farmaco e che abbiamo potuto seguire nel tempo, abbiamo avuto solo 3 ospedalizzazioni» ha continuato. «E avere una terapia che consente di ridurle rappresenta una soluzione a uno dei principali problemi causati dalla pandemia».

Si tratta di una prevenzione in senso lato, in questo caso meglio definibile come “treatment and prevention” dell’evoluzione della malattia. Purtroppo in molti casi molnupiravir non può essere utilizzato, perché spesso il paziente arriva in ospedale troppi giorni dopo l’esordio dei sintomi, vanificando così l’azione dell’antivirale.

«L’unica strada è aumentare l’informazione su questa opportunità per le persone a rischio, sia del medico di base ma soprattutto del cittadino, perché siano consapevoli che esistono le opportunità per fermare questa malattia» ha affermato Andreoni. «Peraltro con effetti collaterali molto modesti, considerati i pochissimi pazienti che hanno interrotto la terapia a causa degli eventi avversi. Tengo a sottolineare che molnupiravir è prescrivibile per alcune categorie di pazienti, che sono molti di più di quelli che siamo abituati a trattare, e da questo punto di vista in Italia si sta facendo troppo poco».

L’esperienza della regione Liguria
Oggi disponiamo di un armamentario terapeutico decisamente ampio rispetto solo a un anno fa, quando avevamo solo gli immunomodulatori. Oltre ai vaccini abbiamo gli anticorpi monoclonali ma soprattutto gli antivirali, che possono aiutare a gestire il virus come se fossero antibiotici contro infezioni batteriche.

Il razionale d’uso degli antivirali è prevenire le visite in pronto soccorso, diminuire il numero di persone che dal pronto soccorso vengono poi ricoverate in ospedale e il numero dei decessi. Altri scopi sono ridurre la durata della malattia, quindi la degenza ospedaliera, e la contagiosità del paziente, diminuendo la possibilità che possa trasmettere l’infezione ad altre persone.

Obiettivi in linea con quelli dello studio MOVe-OUT su molnupiravir, appena pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine, che ha registrato una riduzione di tre giorni nella durata del ricovero, un risultato che applicato a migliaia di pazienti fa la differenza.

«In merito alla situazione prescrittiva degli antivirali, la critica maggiore al nostro paese è che siamo arrivati a far prescrivere questi farmaci alla medicina del territorio senza che fosse stata adeguatamente educata sulla loro corretta gestione, con il risultato che l’utilizzo è molto limitato e con addirittura un trend in calo» ha dichiarato il prof. Matteo Bassetti, Direttore della Clinica di malattie Infettive Ospedale Policlinico San Martino di Genova. «Abbiamo messo a disposizione l’antivirale a medici che l’hanno somministrato a tutti i pazienti che avevano un tampone positivo, indipendentemente dal livello di saturazione dell’ossigeno».

In Liguria, a partire dal 10 novembre 2020, in piena seconda ondata, è stato realizzato un modello virtuoso per monoclonali e antivirali. Al medico di medicina generale è stata data la possibilità di avere un contatto diretto con l’ospedale tutti i giorni e a tutte le ore, tramite telefono o per via telematica, per avere una consulenza.

In totale sono stati seguiti 2.500 pazienti in collaborazione con la medina del territorio, oltre ai 5.000 ricoverati al San Martino di Genova. Sono state effettuate 800 consulenze per via telematica, 500 accessi fast-track ossia un accesso diretto al reparto di malattie infettive senza passare dal pronto soccorso, 2.500 pazienti sono stati trattati con monoclonali e 750 con antivirali orali.

«I nostri dati su molnupiravir sono di 169 pazienti trattati, di cui l’86% già vaccinati. L’endpoint primario era la riduzione del ricovero ospedaliero o la necessità di fare ossigeno nei 30 giorni successivi alla terapia. I pazienti avevano le comorbidità previste nei criteri Aifa» ha riportato Bassetti. «Il dato più significativo è che abbiamo ottenuto una mediana di inizio della terapia di 2,3 giorni dall’esordio dei sintomi, importante perché quanto prima si inizia il trattamento tanto migliori sono gli esiti dei pazienti. Solo il 4% dei soggetti trattati ha avuto bisogno del ricovero in ospedale oppure dell’ossigeno e nessuno è deceduto effettivamente per Covid e non “con Covid”».

«Il problema dell’eccessiva attribuzione al Covid dei decessi dipende da come è stato impostato il sistema di sorveglianza, che è basato sulle positività di laboratorio che vengono segnalate automaticamente al sistema e registrate come caso Covid» ha commentato Lopalco. «Dopo un po’ di tempo, chi gestisce il sistema di sorveglianza rileva lo “stato in vita” dei casi Covid e se il paziente è deceduto viene conteggiato come morte causata dall’infezione, senza far riferimento alla scheda di morte».

«Questo è il motivo principale della notevole differenza nella mortalità per Covid in Italia rispetto agli altri paesi europei, che fa passare un messaggio di una cattiva gestione della pandemia a fronte degli sforzi profusi dal personale sanitario e dei buoni risultati in realtà ottenuti» ha aggiunto Bassetti. «In generale ritengo che un terzo dei pazienti fragili positivi al virus abbiano beneficiato di questi farmaci in termini mortalità e che in due terzi dei pazienti fragili il virus non ha causato conseguenze di rilievo, al punto che se non avessimo questa ossessione per i tamponi non ci saremmo accorti che erano stati contagiati».

Sarebbe necessario creare dei percorsi ben definiti per la prescrizione di questi farmaci e migliorare la cultura per il loro uso nei medici del territorio. La logica vorrebbe che il medico di medicina generale consultasse lo specialista prima della prescrizione, pena il rischio di prescrivere l’antivirale indiscriminatamente a tutti creando una situazione simile a quella che si è creata con l’azitromicina, con il risultato che ora siamo il paese con la più elevata resistenza al mondo dello pneumococco a questo macrolide, che nell’ultimo anno è stato prescritto di default a ogni paziente che aveva il Covid.

Bibliografia

Johnson MG et al. Effect of Molnupiravir on Biomarkers, Respiratory Interventions, and Medical Services in COVID-19: A Randomized, Placebo-Controlled Trial. Ann Intern Med. 2022 Jun 7;M22-0729.

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