Leucemia linfatica cronica: secondo nuovi studi con venetoclax più obinutuzumab confermati i benefici di sopravvivenza a 5 anni
La combinazione ‘chemo-free’ dell’inibitore di Bcl-2 venetoclax e dell’anticorpo monoclonale anti-CD20 obinutuzumab, somministrata con una durata fissa del trattamento (un anno), si conferma, a distanza di 4 anni o più dalla fine della cura, un’opzione terapeutica estremamente efficace per i pazienti con leucemia linfatica cronica che presentano comorbilità, e superiore alla chemioimmunoterapia standard, anche nei sottogruppi a più alto rischio. La conferma proviene dai dati a 5 anni dello studio di fase 3 CLL14, ancora in corso, presentati all’ultimo congresso della European Hematology Association (EHA), svoltosi a Vienna.
A un follow-up mediano di 65,4 mesi, la sopravvivenza libera da progressione (PFS) mediana dei pazienti trattati con venetoclax più obinutuzumab non è stata raggiunta, mentre è risultata di 36,4 mesi nei pazienti trattati con clorambucile più obinutuzumab (HR 0,35; IC al 95% 0,26-0,46; P < 0,0001).
Inoltre, il tasso di PFS a 5 anni dalla randomizzazione è risultato più che raddoppiato con venetoclax più obinutuzumab rispetto alla chemioimmunoterapia: 62,6% contro 27,0%.
E ancora, la maggior parte dei pazienti trattati con la terapia di durata fissa con l’inibitore di Bcl-2 più l’anti-CD20 (il 63%) non era andato incontro a progressione a 4 anni dalla conclusione del trattamento.
«Ciò che è importante per noi in questi follow-up più lunghi è capire come evolve esattamente la malattia e cosa succede ai pazienti dopo che hanno terminato il trattamento», ha detto Othman Al-Sawaf, della clinica universitaria di Colonia, presentando i risultati aggiornati dello studio.
Lo studio CLL14
Lo studio CLL14 (NCT02242942) è un trial multicentrico internazionale, randomizzato, in aperto, in cui si è confrontato il trattamento per un anno con la combinazione venetoclax e obinutuzumab rispetto alla combinazione clorambucile/obinutuzumab in 432 pazienti con leucemia linfatica cronica non trattati in precedenza e che presentavano comorbilità.
I partecipanti sono stati assegnati in rapporto 1:1 al trattamento con 12 cicli di venetoclax somministrati secondo uno schema di dosaggio ramp-up più 6 cicli di obinutuzumab (216) oppure con 12 cicli di clorambucile più 6 cicli di obinutuzumab (216). Per essere idonei all’arruolamento, i pazienti dovevano avere un punteggio della Cumulative Incidence Rating Scale (CIRS) non superiore a 6 e/o una clearance della creatina inferiore a 70 ml/min.
L’endpoint primario dello studio era la PFS, mentre i principali endpoint secondari includevano il tasso di risposta, il tasso di non rilevabilità della malattia minima residua (MRD) e la sopravvivenza globale (OS).
Le caratteristiche dei pazienti
Le caratteristiche dei pazienti al basale erano ben bilanciate tra i due bracci. L’età mediana era di 72 anni nel braccio sperimentale e 71 anni in quello di confronto, il punteggio totale mediano della CIRS era rispettivamente pari a 9 (range: 0-23) e 8 (range: 1-28), mentre la mediana della clearance della creatina stimata era rispettivamente di 65,2 ml/min e 67,4 ml/min.
La maggior parte dei pazienti in entrambi i bracci presentava un rischio di sindrome da lisi tumorale (TLS) intermedio (64% nel braccio con venetoclax contro il 68% nel braccio di controllo) e una malattia in stadio C secondo la classificazione di Binet (44% nel braccio con venetoclax contro il 43% braccio di controllo).
Inoltre, la maggior parte dei pazienti in entrambi i bracci presentava IGHV non mutate (61% e 59%, rispettivamente) e il 12% dei pazienti in entrambi i bracci era portatore di una delezione e/o una mutazione di TP53.
Infine, dal punto di vista del profilo citogenetico, rispettivamente il 17% e il 18% dei pazienti erano portatori della delezione (del)11q, il 17% e il 19% della trisomia 12, il 34% e 36% della sola (del)13q, mentre rispettivamente il 24% e il 20% dei pazienti non presentavano nessuna anomalia.
Beneficio di venetoclax-obinutuzumab confermato anche nei sottogruppi più a rischio
I benefici di PFS della combinazione venetoclax più obinutuzumab sono stati confermati anche nei sottogruppi di pazienti ad alto rischio.
La PFS mediana nei pazienti che non presentavano delezioni o mutazioni di TP53 non è stata raggiunta nel braccio sperimentale, mentre è risultata di 38,9 mesi del braccio di confronto, mentre nel sottogruppo di pazienti portatori di delezioni o mutazioni di TP53 è risultata rispettivamente di 49,0 mesi e 19,8 mesi.
«La presenza della delezione 17p e quella di mutazioni di TP53 rappresentano marcatori genetici di aggressività di malattia. In particolare, nel sottogruppo con mutazioni di TP53, che è sicuramente quello più difficile da trattare e nel quale con la chemioimmunoterapia si ottengono risultati molto insoddisfacenti, la PFS, quando si è usato venetoclax, è risultata superiore a 4 anni, contro 21 mesi con la chemioimmunoterapia: una differenza marcatissima, quindi, che rende la terapia con venetoclax molto efficace anche in questo sottogruppo con prognosi sfavorevole». Analogamente, nei pazienti con IGHV (immunoglobuline) non mutate, altro sottogruppo ad alto rischio, la PFS mediana è risultata di 64,2 mesi nel braccio trattato con venetoclax e 26,9 mesi in quello trattato con la chemioimmunoterapia standard, mentre tra i pazienti con IGHV mutate la PFS mediana non è stata raggiunta nel braccio sperimentale ed è risultata di 59,9 mesi in quello di confronto.
«Nei pazienti con IGHV non mutate trattati con venetoclax più obinutuzumab, la PFS a 5 anni e risultata del 59%, un risultato molto, molto soddisfacente, che ci dà l’opportunità di utilizzare questa combinazione anche in questo sottogruppo a prognosi sfavorevole».
«Ma il risultato forse più sorprendente si riferisce al sottogruppo di pazienti con i geni delle immunoglobuline non mutati: in questo sottogruppo, i pazienti trattati con venetoclax e obinutuzumab hanno mostrato una probabilità di essere liberi da progressione a 5 anni del 75%. Se si considera che l’età mediana dei pazienti in questo studio era di 70 anni, la stragrande maggioranza di essi non avrà bisogno per il resto della sua vita di un successivo trattamento Quindi, una terapia di un anno con venetoclax e obinutuzumab renderà la malattia davvero gestibile, nella maggior parte dei casi senza dover ripetere un trattamento, perché i problemi a cui andranno incontro i pazienti probabilmente non saranno legati a una ricaduta della leucemia linfatica cronica. Inizia, insomma, a farsi strada il concetto di guarigione funzionale: la malattia non è guarita, ma, di fatto, è come se non ci fosse, una situazione che non ha precedenti e, quindi, un messaggio molto positivo per i nostri pazienti».
Con venetoclax oltre il 70% dei pazienti, a 5 anni, non ha richiesto ulteriore terapia
Inoltre, la mediana del tempo al trattamento successivo (TTNT) non è stata raggiunta nel braccio sperimentale, mentre è risultata di 52,9 mesi nel braccio di confronto. Inoltre, i tassi di TTNT a 5 anni sono risultati rispettivamente del 72,09% e 42,84% (HR 0,42; IC al 95% 0,31-0,57; P < 0,0001).
«Questo dato è di straordinaria importanza per la vita quotidiana dei pazienti, perché significa che circa il 72% di quelli trattati per un anno con venetoclax e obinutuzumab, a 4 anni dal termine della terapia non avevano avuto necessità di iniziare un nuovo trattamento, e quindi hanno potuto usufruire di un periodo prolungato nel quale hanno potuto tornare a fare una vita normale, senza gli effetti collaterali dei trattamenti».
I pazienti che sono stati trattati con una seconda linea di terapia antileucemica a causa della progressione della malattia sono stati 31 nel braccio trattato con venetoclax, contro 94 pazienti nel braccio di confronto.
In entrambi i bracci, la maggior parte di questi pazienti sono stati trattati in seconda linea con un inibitore della tirosin-chinasi di Bruton (BTK) (58,1% contro 54,3%). Gli inibitori di PI3K e gli anticorpi anti-CD20 sono stati utilizzati come terapia di seconda linea in un paziente per ciascun trattamento, in entrambi i casi nel braccio trattato con la chemioimmunoterapia. Infine, la chemioterapia o la chemioimmunoterapia sono state impiegate in seconda linea in meno di un terzo dei pazienti in entrambi i bracci (25,8% contro 30,9%).
Con venetoclax, OS a 5 anni oltre l’80%
Al-Sawaf ha riferito che in entrambi i bracci la mediana di OS non è stata raggiunta. Inoltre, i tassi di OS a 5 anni dalla randomizzazione sono risultati dell’81,9% e del 77,0%, rispettivamente nel braccio sperimentale e in quello di confronto (HR 0,72; IC al 95% 0,48-1,09; P = 0,12).
Nel braccio trattato con venetoclax più obinutuzumab, «la sopravvivenza (a 5 anni, ndr) è molto lunga è superiore all’80%. Ma occorre essere chiari: quando si calcola la sopravvivenza vengono registrati tutti i decessi, qualunque sia la causa; in questo braccio, tuttavia, la causa del decesso è stata la leucemia linfatica cronica solo nel 20% dei casi, un numero veramente esiguo, quindi», ha sottolineato Cuneo.
Inoltre, ha aggiunto l’esperto, «ormai, a distanza di 5 anni, si inizia a osservare una differenza di sopravvivenza: si sono persi 40 pazienti nel braccio trattato con venetoclax contro 57 nel braccio trattato con clorambucile; pertanto, riteniamo – e su questo aspetto c’è stata una discussione molto vivace al congresso – con un follow-up più lungo che si potrà iniziare a vedere anche un vantaggio di sopravvivenza nei pazienti trattati con venetoclax».
Con venetoclax, MRD ancora non rilevabile in quasi il 20% dei pazienti
La valutazione della MRD nel sangue periferico 4 anni dopo la fine del trattamento ha mostrato che con venetoclax più obinutuzumab il 18,1% dei pazienti aveva ancora una MRD non rilevabile (inferiore a 10-4; valutata mediante NGS). Nei pazienti trattati con clorambucile più obinutuzumab, invece, i pazienti con MRD non rilevabile, a 4 anni dalla fine della terapia sono stati solo l’1,9%.
Dal momento che la profondità della remissione, misurata come non rilevabilità della MRD con una sensibilità oltre 10-4, è correlata a una PFS a lungo termine, Al-Sawaf ha sottolineato quanto sia importante valutare l’MRD con una sensibilità adeguata.
Sicurezza confermata
Sul piano della sicurezza, Al-Sawaf ha concluso che non sono emersi nuovi segnali riguardo al trattamento con venetoclax più obinutuzumab.
Gli effetti avversi più comuni di grado 3 o superiore manifestatisi durante il trattamento con venetoclax più obinutuzumab sono stati neutropenia (51,9%), trombocitopenia (14,2%), anemia (7,5%) e neutropenia febbrile (4,2%). Dopo il trattamento, gli eventi avversi più frequenti di grado 3 o superiore sono stati neutropenia (4%), polmonite (3,0%) e anemia (2%).
Nel braccio di controllo, gli eventi avversi di grado 3 o superiore più comuni segnalati durante il trattamento sono stati neutropenia (47,2%), trombocitopenia (15%) e reazioni correlate all’infusione (9,8%), mentre quelli di grado 3 o superiore più frequenti dopo la fine della terapia sono stati neutropenia (1,9%), polmonite (1,4%) e anemia (0,5%).
«I risultati di safety aggiornati dimostrano che con venetoclax-obinutuzumab quando si finisce la terapia, nel momento in cui il paziente smette di assumere i farmaci, gli effetti collaterali divengono eccezionali», ha rimarcato Cuneo. «Sappiamo che durante il trattamento circa metà dei pazienti sviluppa un calo significativo dei granulociti neutrofili, che però non comporta problemi particolari, e va semplicemente gestito o sospendendo temporaneamente il farmaco o somministrando il fattore di crescita granulocitario, e poi altri piccoli effetti collaterali quali disturbi gastrointestinali e un po’ di stanchezza, in genere di breve durata, che rendono questo trattamento molto ben tollerato. Inoltre, sempre durante le prime fasi il trattamento, la somministrazione dell’anticorpo monoclonale anti-CD20 può dare reazioni infusionali, che i medici hanno comuqunque imparato a gestire in ambiente protetto, con la prevenzione della reazione stessa, e il suo pronto trattamento qualora questa si manifestasse».
Neoplasie primitive seconde si sono sviluppate nel 20,8% e nel 15,0% dei pazienti, rispettivamente nel braccio sperimentale e in quello di confronto. I tumori più frequenti sono risultati quelli cutanei diversi dal melanoma (9,0% contro 8,4%), tumori solidi (7,1% contro 4,7%) e il melanoma (3,8% contro 1,4%). Al riguardo, ha detto Al-Sawaf: «Le differenze tra i due bracci in termini di seconde neoplasie rimangono statisticamente non significative, ma continuiamo a seguire la sicurezza e la sopravvivenza dei pazienti in questo studio».
In conclusione
In conclusione, ha detto l’autore, oltre il 60% dei pazienti che erano stati trattati con venetoclax più obinutuzumab per un anno è rimasto in remissione a 4 anni dalla fine della terapia e la maggior parte di essi non ha ancora avuto bisogno una terapia di seconda linea.
Quindi, ha concluso Al-Sawaf, per i pazienti con leucemia linfatica cronica che presentano comorbilità il trattamento con venetoclax e obinutuzumab di durata fissa continua a essere un’opzione efficace, anche nel contesto di una malattia ad alto rischio.
Bibliografia
O. Al-Sawaf, et al. Venetoclax-obinutuzumab for previously untreated chronic lymphocytic leukemia: 5- year results of the randomized CLL14 study. EHA 2022; abstract S148. Link