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Leucemia linfatica cronica: venetoclax e obinutuzumab accoppiata vincente

Leucemia linfocitica cronica/linfoma a piccoli linfociti recidivati o refrattari: zanubrutinib è in grado di ritardare la progressione della malattia meglio di ibrutinib

Leucemia linfatica cronica: venetoclax e obinutuzumab in prima linea, con o senza ibrutinib, riducono il rischio di progressione del 58-68%

Nei pazienti con leucemia linfatica cronica ‘fit’, una terapia di prima linea di durata fissa con la combinazione venetoclax più obinutuzumab, con o senza ibrutinib, ha dimostrato di migliorare la sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto alla chemioimmunoterapia standard. Il dato proviene da un’analisi ad interim dello studio di fase 3 GAIA/CLL13, presentata al Congresso della European Hematology Association (EHA), a Vienna.

Le due combinazioni a base di venetoclax hanno dimostrato di fornire un netto beneficio anche nei pazienti con immunoglobuline (IGHV) non mutate, una popolazione notoriamente ‘difficile’ e con prognosi sfavorevole.

Con un follow-up di 38,8 mesi, la PFS mediana non è stata raggiunta né nel braccio trattato con la combinazione di venetoclax, obinutuzumab e ibrutinib (GIV) né in quello trattato con venetoclax e obinutuzumab (GV), mentre è risultata di 52 mesi in quello trattato con la chemioimmunoterapia standard. Rispetto a quest’ultima, il trattamento con il regime GIV ha ridotto il rischio di progressione o decesso del 68% (HR 0,32; IC 97,5%, 0,19-0,54; P < 0,000001), mentre con il regime GV la riduzione è risultata del 58% (HR 0,42; IC al 97,5% 0,26-0,68; P < 0,0001).

I tassi di PFS a 3 anni sono risultati del 90,5% nei 231 pazienti trattati con la tripletta GIV e 87,7% nei 229 trattati con la doppietta GV, contro 75,5% nei 229 sottoposti alla chemioimmunoterapia standard.

Nel braccio trattato con venetoclax più rituximab (RV), la PFS mediana è risultata di 52,3 mesi, ma in questo caso la differenza con il braccio trattato con la chemioimmunoterapia non è risultata statisticamente significativa (HR 0,79; IC al 97,5%, 0,53-1,18; P = 0,183). Inoltre, il tasso di PFS a 3 anni nei 237 pazienti del braccio RV è risultata dell’80,8%.

Questi dati consolidano quelli presentati nel dicembre scorso al congresso dell’American Society of Hematology (ASH), che avevano evidenziato un aumento dei tassi di negatività della malattia minima residua (MRD) tra i pazienti dei bracci con le combinazioni a base di venetoclax rispetto al braccio trattato con la chemioimmunoterapia. I dati confermano anche il valore della negatività dell’MRD come marker surrogato di una migliore PFS.

«L’analisi della PFS ad interim mostra che la combinazione di venetoclax e obinutuzumab più ibrutinib è chiaramente superiore alla chemioimmunoterapia con FCR (fludarabina, ciclofosfamide e rituximab) per i pazienti più giovani o BR (bendamustina più rituximab) per quelli anziani ‘fit’, così come la combinazione venetoclax più obinutuzumab », ha affermato Barbara Eichhorst, dell’Ospedale universitario di Colonia, illustrando i dati. Invece, «la combinazione venetoclax più rituximab non è risultata superiore, quindi l’efficacia dipende dall’anticorpo che si combina con venetoclax».

Combinazioni con venetoclax superiori alla chemioimmuno anche nei pazienti con IGVH non mutate
A Vienna, la Eichhorst ha presentato anche i dati di un’analisi dei risultati in funzione dello stato delle IGVH, mutate o non mutate.

«I pazienti con IGHV mutate hanno prognosi favorevole, e in questo sottogruppo non c’è una grande differenza tra i trattamenti con venetoclax e la chemioimmunoterapia tradizionale. Tuttavia, si vede un’enorme differenza in quelli con IGVH non mutate», ha sottolineato l’autrice.

«Anche nel sottogruppo di pazienti con IGVH non mutate, a prognosi sfavorevole, le combinazioni obinutuzumab più venetoclax e obinutuzumab più venetoclax più ibrutinib sono risultate superiori rispetto alla chemioimmunoterapia in termini di PFS», ha aggiunto Mauro.

Nel sottogruppo con IGVH mutate, la PFS a 3 anni è risultata del 96,0% nel braccio trattato con GIV, 93,6% in quello trattato con GV, 87,0% in quello trattato con RV e 89,9% nel braccio assegnato alla chemioimmunoterapia.

Nel sottogruppo con IGHV non mutate, invece, la PFS a 3 anni è risultata dell’86,6%, 82,9% e 76,4%, rispettivamente, nei bracci trattati con GIV, GV e RV, contro 65,5% con la chemioimmunoterapia standard.

I presupposti dello studio
Gli sperimentatori, ha spiegato la Eichhorst, hanno disegnato lo studio GAIA per valutare diverse opzioni terapeutiche ‘chemo-free’ di durata limitata nel tempo, in confronto con la chemiommunoterapia standard, in pazienti con leucemia linfatica cronica al primo trattamento, selezionati in base a un punteggio di fitness.

«Per i pazienti anziani o non ‘fit’, possiamo scegliere fra terapie mirate, fra cui il trattamento a lungo termine con inibitori di BTK e il trattamento per un tempo limitato con l’inibitore di Bcl-2 venetoclax, in combinazione con obinutuzumab, quest’ultimo sulla base dei dati dello studio CLL14», ha detto la autrice all’inizio della sua presentazione, facendo un excursus sullo stato dell’arte della cura della leucemia linfatica cronica. «Non avevamo ancora i dati di uno studio randomizzato di fase 3 per i pazienti ‘fit’ trattati con venetoclax più obinutuzumab, quindi in Europa e in molti Paesi trattiamo quei pazienti con la chemioimmunoterapia quando presentano IGVH mutate, o con una terapia continuativa con inibitori di BTK».

Nello studio GAIA (NCT02950051), gli autori hanno quindi voluto valutare se tre combinazioni a base di venetoclax e un anticorpo anti-CD20, di durata fissa, utilizzate in prima linea, fossero superiori alla chemioimmunoterapia in una popolazione di pazienti ‘fit’, con un punteggio della Cumulative Incidence Rating Scale (CIRS) non superiore a 6, una clearance della creatina normale (≥ 70 ml/min) e non portatori di mutazioni di TP53 o della delezione 17p.

Lo studio GAIA/CLL13
GAIA (NCT02950051) è un trial multicentrico internazionale, randomizzato, in aperto, nel quale 926 pazienti sono stati assegnati secondo un rapporto 1:1:1:1 a quattro bracci: uno trattato con la chemioimmunoterapia (FCR in 150 pazienti e BR in 79) e gli altri tre con le combinazioni a base di venetoclax RV (237 pazienti), GV (229 pazienti) e GIV (231 pazienti). Il tipo di regime chemioimmunoterapico è stato scelto in base all’età dei pazienti: FCR in quelli fino a 65 anni e BR in quelli sopra i 65.

Tutti i regimi di trattamento sono stati somministrati in cicli di 28 giorni, per 6 cicli. I pazienti nei bracci RV e GV hanno ricevuto 6 cicli aggiuntivi di venetoclax da solo e i pazienti nel braccio GIV hanno ricevuto 6 cicli di ibrutinib più venetoclax, ma questi ultimi potevano continuare il trattamento con ibrutinib per un massimo di 36 cicli, se dopo 12 cicli avevano ancora una MRD rilevabile.

I due endpoint primari dello studio erano la negatività della MRD a 15 mesi (misurata nel sangue periferico con una sensibilità pari a 10-4, mediante citometria a flusso a 4 colori), nel braccio trattato con GV rispetto alla quello trattato con la chemioimmunoterapia e la PFS con la tripletta GIV rispetto alla chemioimmunoterapia.

MRD marker surrogato della PFS
I dati presentati all’ultimo congresso dell’ASH hanno dimostrato che il primo dei due endpoint primari, quello relativo alla negatività della MRD nel sangue periferico, è stato centrato in pieno.

Infatti, il tasso di non rilevabilità della MRD è risultato dell’86,5% (IC al 97,5% 80,6%-91,1%) con la doppietta GV e del 92,2% (IC al 97,5% 87,3%-95,7%) con la tripletta GIV, a fronte del 52% (IC al 97,5% 44,4%-59,5%) con la chemioimmunoterapia (P < 0,0001 per entrambi i confronti).

Il trattamento con RV invece, non ha migliorato in modo significativo i tassi di MRD non rilevabile rispetto alla chemioimmunoterapia: 57% (IC al 97,5% 49,5%-64,2%) contro 52% (P = 0,317).

I nuovi dati presentati ora all’EHA mostrano che è stato raggiunto anche il secondo dei due endpoint primari, quello relativo alla PFS.

Buon profilo di sicurezza
Sul piano della sicurezza, la Eichhorst ha osservato che tutti i bracci hanno mostrato un buon profilo di sicurezza, senza differenze significative fra gli uni e gli altri nell’incidenza di eventi di grado 3 o superiore: 83,5% con la tripletta GIV, 84,2% con la doppietta GV, 73,0% con RV e 81,5%, con la chemioimmunoterapia.

Si sono registrati tassi più elevati di infezioni di grado 3 o superiore nel braccio trattato con la combinazione GIV (22,1%) e nel braccio assegnato alla chemioimmunoterapia (20,4%) rispetto ai bracci trattati con le doppiette RV (11,4%) e GV (14,9%). Anche la neutropenia febbrile di grado 3 o superiore è risultata più frequente nei bracci trattati con la tripletta GIV (7,8%) e la chemioimmunoterapia (11,1%) rispetto ai bracci che hanno ricevuto i regimi RV (4,2%) e GV (3,8%).

Altri eventi avversi di grado 3 o superiore comuni sono stati disturbi del sistema emolinfopoietico, che hanno avuto un’incidenza rispettivamente del 50,6% nel braccio GIV, 56,1% nel braccio GV, 43,5% nel braccio RV e 56,5%, nel braccio di controllo.

Prospettive future
Nelle sue osservazioni conclusive, la Eichhorst ha riferito che è ora in corso un confronto diretto tra la tripletta GIV e la doppietta GV.

«Al momento, in Italia, abbiamo già a disposizione il trattamento con venetoclax e obinutuzumab, che si è dimostrato efficace anche in questo studio», ha ricordato Mauro.

«Potremo utilizzare anche la tripletta venetoclax-obinutuzumab-ibrutinib – si spera – entro la prossima primavera. Ci separa, dunque, ancora qualche mese da questa possibilità terapeutica che non solo questo studio, ma anche molti altri, hanno mostrato essere molto efficace ai fini del raggiungimento di risposte profonde, in assenza di malattia minima residua», ha concluso l’esperta italiana.

Bibliografia
B. Eichhorst, et al. Time-limited venetoclax-obinutuzumab +/- ibrutinib is superior to chemoimmunotherapy in frontline chronic lymphocytic leukemia (CLL): PFS co-primary endpoint of the randomized phase 3 GAIA/CLL13 trial. EHA 2022; abstract LB2365. Link

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