Vulvodinia, l’esperta: “Troppo sommerso, in Italia il ritardo diagnostico medio è di 4 anni. L’ipertono del pavimento pelvico può incidere sull’esordio della patologia”
“La vulvodinia è una patologia che colpisce l’organo genitale femminile e affligge circa il 15% delle donne, compromettendone seriamente la qualità della vita. Le cause sono molteplici e non sempre note. Per molte pazienti arrivare alla diagnosi è un’impresa con un ritardo diagnostico elevato. La sintomatologia può essere variegata ed è per questo che gli stessi ginecologici vanno sensibilizzati. Un test specifico per diagnosticare la vulvodinia esiste, ma il ginecologo deve tenere in considerazione, che tra le ipotesi di malattia ci sia anche la vulvodinia facendo un’anamnesi accurata. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, del test a disposizione, le cure e le piccole ma importanti strategie che vanno messe in atto per migliorare sostanzialmente la vita di molte donne affette dalla vulvodinia, l’agenzia di stampa Dire (www.dire.it) ha intervistato la dottoressa Rosanna Palmiotto, ginecologa.
– Che cos’è la vulvodinia? E quante donne in Italia ne soffrono?
“La percentuale di donne colpite dalla malattia è pari al 10-15%. Il problema vero è che c’è molto sommerso e si registra un ritardo diagnostico pari a circa 4 anni. La malattia è caratterizzata da molti sintomi ed è classificata come neuropatia periferica che comporta un’alterata sensibilità della mucosa vulvare. In particolare i nervetti che la costituiscono sollecitati trasmettono al cervello il segnale del dolore”.
– Quali sono i sintomi principali di questa patologia?
“La sintomatologia che deve mettere in allarme la paziente è caratterizzata dalla presenza di bruciore e dolore che può insorgere in fase premestruale oppure quando la donna si lava, inserisce un assorbente interno, accavalla le gambe ed esegue dell’attività fisica. Per non parlare del dolore alla penetrazione durante i rapporti sessuali e alla stimolazione del clitoride. Credo sia molto importante promuovere una educazione alla salute e far comprendere alle giovani donne, rispetto a quello che è il retaggio sociale, che non è ‘normale’ provare dolore, bruciore e sensazioni simili. Prendere coscienza di questa possibilità, cioè di essere colpite da vulvodinia, contribuisce ad intercettare in fase precoce la malattia con una possibilità di remissione quasi totale”.
– Nella sua esperienza clinica lei ha già dichiarato di aver curato diverse figlie di sue pazienti. Perché c’è una sorta di ereditarietà?
“Come il figlio può ereditare il sorriso, la postura della madre allo stesso modo può ricevere in eredità anche lo stesso pavimento pelvico. Infatti è noto come l‘ipertono del pavimento pelvico può incidere sull’esordio della patologia”.
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– Quali sono le nuove frontiere nella diagnosi della vulvodinia?
“Di nuovissimo non c’è nulla. Da molti anni, più di 20, mi occupo di questa patologia e con il mio team da molti anni ho sviluppato delle metodiche di lavoro che hanno contribuito a diagnosi precoci. La vera novità è che adesso si parla di questo problema. Non esiste un vero e proprio test diagnostico. Quello che è importante è l’atteggiamento del ginecologo che deve aver ‘voglia’ di capire perché quella paziente sta male. Io la diagnosi la effettuo attraverso una corretta anamnesi. Lo specialista deve porre determinate domande alle pazienti e ricostruire il quadro clinico per sapere: quando ha avuto le prime mestruazioni, le caratteristiche della sessualità, se arriva o no a raggiungere l’orgasmo vaginale. Io utilizzo il ‘Q-tipe test’ che è un test che valuta la vulva e serve, attraverso una serie di pressioni, a capire se la donna prova dolore. Si tratta di un test alla portata di tutti e dura un minuto. Allo stesso modo, per capire qual è la terapia più idonea sarà la valutazione del pavimento pelvico “.
– Spesso alle pazienti vengono proposte come terapie, gli antidepressivi. Qual è la loro funzione? In alternativa ci sono altre opzioni terapeutiche?
“Questi farmaci in un dosaggio minimo servono a diminuire, soprattutto nelle forme che esitano in dolore forti, il senso di dolore agendo perciò sulla neuropatia. Personalmente opto per i farmaci da applicare localmente a livello vulvare perché sono anallergici. E’ importante lavorare in equipe insieme ai sessuologi e agli psicologi per recuperare il piacere nell’ambito dei rapporti sessuali che in corso di malattia sono contraddistinti dal dolore”.