Cellule modificate in laboratorio, la nuova frontiera delle cure per i tumori


Le terapie che si basano sulla somministrazione di cellule modificate in laboratorio sono già realtà. I ricercatori stanno potenziando quelle esistenti

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Uno dei grandi successi dell’oncologia degli ultimi anni è stata l’introduzione in clinica di una terapia basata sulla somministrazione non di molecole, ma di cellule vive, capaci di riconoscere e distruggere le cellule tumorali. In particolare, la terapia con le cellule CAR-T, la prima di questo tipo entrata nella pratica clinica, ha offerto una possibilità a pazienti con leucemie e linfomi che non rispondevano alle terapie o che avevano avuto ricadute dopo un iniziale successo delle cure. Gli scienziati stanno ora cercando di rendere più efficace e meno costoso l’utilizzo delle cellule CAR-T. Inoltre stanno anche sviluppando terapie basate su cellule differenti, come dimostrano alcune ricerche i cui risultati sono stati appena pubblicati su importanti riviste specializzate.

Un aiuto alle cellule CAR-T

CAR-T è l’acronimo dell’inglese “Chimeric Antigen Receptor T cell”, ossia “cellule T che esprimono un recettore chimerico per l’antigene”. Le cellule CAR-T sono globuli bianchi appartenenti ai linfociti T. Sono ottenute dal paziente e modificate in laboratorio affinché portino in superficie recettori capaci di riconoscere una specifica proteina presente sulle cellule tumorali. Dopo l’ingegnerizzazione, le cellule sono iniettate nuovamente nell’organismo dei pazienti, dove raggiungono le cellule tumorali e le distruggono. Le cellule CAR-T devono essere prodotte specificamente per ciascun paziente e per questo la procedura per realizzarle è complessa e i costi sono molto alti. Inoltre, a oggi le sperimentazioni andate a buon fine hanno permesso di portare in clinica terapie solo per i tumori che hanno sulla superficie una specifica proteina (CD19), espressa da leucemie e linfomi che derivano dai linfociti B.

Purtroppo, come quasi sempre accade, la cura non è efficace nel 100 per cento dei casi e alcuni pazienti non ne traggono beneficio. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Cleveland (Ohio) ha studiato cosa accomunava i pazienti con linfoma non Hodgkin che non rispondevano alla terapia con cellule CAR-T. Utilizzando una tecnica in cui si analizzano i geni espressi da ogni singola cellula del campione, hanno confrontato le cellule CAR-T prima e dopo l’infusione nel paziente. Si sono così accorti che, nei pazienti che non rispondevano alla terapia, le cellule CAR-T perdevano potenza e questo si accompagnava all’espressione di alti livelli della proteina TIGIT. I ricercatori hanno quindi dimostrato che impedire l’espressione di TIGIT aumentava l’efficacia della terapia in animali di laboratorio. I risultati ottenuti suggeriscono che se si riuscisse a trovare un farmaco che blocchi TIGIT, probabilmente si potrebbe aumentare la risposta alla terapia CAR-T e la sopravvivenza dei pazienti con linfoma non Hodgkin.

CAR-T e tumori solidi

Molti gruppi di scienziati sono alla ricerca di protocolli per utilizzare le cellule CAR-T per curare pazienti con tumori solidi. Prima di tutto occorre però trovare una proteina o, più correttamente,  un antigene presente sulle cellule tumorali a cui si deve legare il recettore. L’antigene deve essere inoltre distintivo delle cellule maligne e non deve invece trovarsi sulle cellule sane, al fine di evitare che le cellule CAR-T diano tossicità. I ricercatori del Moffitt Cancer Center di Tampa (Florida) sembrerebbero avere individuato un possibile candidato. Si tratta di OR2H1, una proteina della famiglia dei recettori olfattivi che in condizioni normali è rilevabile solo nei testicoli e che si trova espressa in vari tipi di tumori. Il gruppo di ricerca ha generato delle CAR-T specifiche per OR2H1. Queste cellule sono state valutate in colture cellulari e animali di laboratorio, dimostrando un’attività contro i tumori del polmone e dell’ovaio. I dati, seppure preliminari, potrebbero aprire la strada all’utilizzo delle CAR-T per il trattamento di questi tipi di tumori.

Alcuni scienziati dell’Università della California del Sud si sono concentrati sul recettore invece che sull’antigene: hanno creato un recettore, a cui hanno dato il nome di SIR (Synthetic Immune Receptor, ossia “recettore immune sintetico”), che assomiglia più da vicino al recettore naturalmente espresso dai linfociti T. Sperimentati nei topi, i linfociti T equipaggiati con il recettore SIR (cellule SIR-T) hanno mostrato un’attività promettente contro il tumore della prostata. Grazie a questi risultati, i ricercatori hanno ottenuto un cospicuo finanziamento da parte del California Institute for Regenerative Medicine (CIRM), e a breve inizieranno gli studi preclinici necessari sperimentare la nuova terapia negli esseri umani.

Nuove cellule guerriere

C’è chi poi ha cambiato radicalmente approccio, usando per combattere i tumori cellule diverse dai linfociti T. Si tratta di alcuni ricercatori dell’Università di Harvard, interessati a trovare una strategia per curare il glioblastoma, un tumore aggressivo che colpisce il cervello e il midollo spinale. Poiché nella maggioranza dei casi, anche quando si riesce a intervenire chirurgicamente, il glioblastoma si riforma, è urgente mettere a punto una terapia adiuvante in grado di eliminare le cellule tumorali residue dopo l’intervento. Le cellule CAR-T in questo contesto non sono considerate un’opzione praticabile, in quanto, data l’aggressività del tumore, occorre agire molto in fretta e non ci sono i tempi tecnici per produrle a partire dalle cellule dei pazienti.

I ricercatori hanno pensato così di partire da cellule staminali mesenchimali di donatori sani, modificate e già pronte per essere somministrate subito dopo la chirurgia. Le cellule sono state ingegnerizzate in laboratorio per renderle in grado di legare proteine dette “recettori di morte” espresse dalle cellule tumorali. Per fare arrivare le cellule ingegnerizzate al tumore cerebrale i ricercatori hanno sviluppato uno speciale sistema di incapsulamento. Negli esperimenti condotti con i topi la terapia è risultata molto efficace: il 100 per cento degli animali era vivo a distanza di 90 giorni dal trattamento, a differenza degli animali non trattati, la cui sopravvivenza non superava i 55 giorni. Gli autori della ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications, pensano che si potrebbero creare delle “banche” di cellule staminali modificate per riconoscere diversi recettori presenti sulle cellule tumorali da usare per trattare tumori aggressivi e difficili da curare come il glioblastoma.

FONTE: AIRC