Nei pazienti con grave disfunzione ventricolare sinistra e malattia coronarica estesa l’intervento coronarico percutaneo (PCI) non ridurrebbe la mortalità generale
Il background
La diatriba se nella cardiomiopatia ischemica con insufficienza sistolica grave sia più efficace sugli hard endpoint il bypass aortocoronarico o un approccio con PCI ha tenuto banco per diverso tempo. Recentemente, nello studio STICH (Surgical Treatment for Ischemic Heart Failure), l’intervento cardiochirurgico di bypass coronarico ha migliorato la sopravvivenza, ma solo in pazienti altamente selezionati, tipicamente giovani. Tuttavia, il beneficio ha impiegato 10 anni per emergere, in gran parte a causa del danno precoce dell’operazione. Un approccio mediante PCI è stato considerato un’alternativa interessante all’intervento chirurgico di bypass, potendo offrire i vantaggi della rivascolarizzazione senza il rischio precoce. Tuttavia, non sono disponibili evidenze randomizzate a sostegno e le raccomandazioni delle linee guida su questo approccio di questo trattamento in alcuni pazienti si sono basate solo sull’opinione di esperti.
La metodologia dello studio
Lo studio REVIVED-BCIS2, coordinato da Divaka Perera, King’s College di Londra, è stato pianificato con lo scopo di colmare queste lacune. Settecento pazienti provenienti da 40 centri nel Regno Unito sono stati assegnati in modo casuale in un rapporto 1:1 a PCI con terapia medica ottimale o da sola terapia medica ottimale. L’età mediana dei partecipanti era di 70 anni, l’88% erano uomini e la frazione di eiezione ventricolare sinistra media era del 28%. L’outcome primario era il composito di morte per tutte le cause o ricovero in ospedale per insufficienza cardiaca. Gli outcome secondari includevano la frazione di eiezione del ventricolo sinistro a 6 e 12 mesi e le misure della qualità della vita.
Gli esiti del trial
Durante un follow-up mediano di 3,4 anni, l’outcome primario si è verificato in 129 (37,2%) pazienti nel gruppo PCI e in 134 (38,0%) pazienti nel gruppo della sola terapia medica per un hazard ratio di 0,99 (IC al 95%: 0,78– 1,27, p=0,96).
Nessuna differenza significativa è stata osservata tra i gruppi anche per l’outcome secondario maggiore dello studio, la frazione di eiezione ventricolare sinistra a 6 e 12 mesi. Dato che sono stati arruolati solo pazienti con vitalità miocardica dimostrabile, quest’ultima scoperta mette in discussione il concetto di ibernazione miocardica, che per decenni è stato considerato un adattamento del cuore per far fronte agli effetti di una grave ischemia coronarica, che può essere fatto regredire trattando la coronaropatia.
La qualità della vita (l’altro principale outcome secondario) è risultata migliore nel gruppo PCI a 6 e 12 mesi, ma non è stata rilevata alcuna differenza tra i gruppi a 24 mesi.
Conclusioni e considerazioni
Il professor Perera ha affermato: «Possiamo concludere che un trattamento mediante PCI non dovrebbe essere offerto a pazienti stabili con disfunzione ischemica del ventricolo sinistro se l’unico scopo è fornire un beneficio prognostico. I nostri risultati erano coerenti in tutti i sottogruppi e per tutte le misure di esito predefinite. Questi risultati definitivi dovrebbero aiutare a razionalizzare le linee guida sulla gestione della malattia coronarica nei pazienti con funzione ventricolare sinistra molto compromessa. Tuttavia, è importante notare che REVIVED-BCIS2 ha escluso i pazienti con angina limitante o sindromi coronariche acute recenti, per i quali e l’angioplastica è ancora un’opzione valida».
Fonte
Perera D, Clayton T, O’Kane PD, et al. Percutaneous revascularization for ischemic left ventricular dysfunction. N Engl J Med. 2022;Epub ahead of print.