Secondo le nuove stime la moda maschile italiana vede crescere le proprie esportazioni del +6%, per un totale di circa 4,1 miliardi di euro
Secondo le stime del Centro Studi di Confindustria Moda per Smi e le indicazioni di Istat, nei primi sette mesi del 2022, la moda maschile italiana vede crescere le proprie esportazioni del +6%, per un totale di circa 4,1 miliardi di euro, mentre l’import è aumentato del +28,6%, salendo a 3,3 miliardi.
Se nelle aree Ue, che coprono quasi il 46% dell’export settoriale, l’incremento è stato del +7,7%, nell’extra Ue (che assorbe il 54,2%) si parla di un +4,7%. Dall’Ue proviene il 41,8% della moda maschile in ingresso nel nostro Paese, contro il 58,2% dall’extra Ue.
Prima destinazione delle esportazioni Made in Italy, con un +2,7% e quasi il 12% del totale, è la Svizzera, hub logistico-commerciale strategico per le griffe italiane che dalla Confederazione smerciano poi i propri prodotti nel resto del mondo. A seguire vengono poi la Francia (+11,3%), la Germania (+1,4%) e gli Usa che segnano un exploit al +46,7%. in calo sono invece le esportazioni verso il Regno Unito (-0,4%) e verso la Cina, con un netto -12,7%. Non marginale (-22,3%) il calo del Giappone, ma anche Hong Kong (-20,5%). Ovviamente penalizzata (-26,6%) la Russia.
Passando all’import, tutti i principali mercati di approvvigionamento evidenziano trend a segno più. Guida la classifica il Bangladesh, che cresce del 78,2% e incide sul totale per il 17,2%, tallonato dalla Cina, in avanzata del 25,5% e con l’11,1% del totale.
Da un’analisi dal punto di vista del prodotto, risulta particolarmente dinamico l’export della camiceria (+38,6%), cravatte (+28,9%), dell’abbigliamento in pelle (+24,5%) e della maglieria (+23,9%). In negativo invece è quello dell’abbigliamento che flette del -16,3%.
Nelle importazioni le cravatte balzano di oltre il +64%, seguite da maglieria (+48,1%) e camiceria (+45,8%). L’abbigliamento in pelle segna un +16,6% ma la confezione non va oltre il +5,4%.
Secondo gli esperti di Confindustria Moda, i timori maggiori sono da ricondurre alla pressione sui costi in termini di energia, al conflitto russo-ucraino e al possibile rallentamento della domanda, visto il clima di incertezza che ci circonda.