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Sclerosi multipla: terapie ad alta efficacia migliorano malattia

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Le terapie ad alta efficacia per la sclerosi multipla hanno migliorato gli esiti della malattia per molti pazienti, ma i medici sono incerti su quando usarle

Le terapie ad alta efficacia per la sclerosi multipla (SM) hanno migliorato gli esiti della malattia per molti pazienti, ma i medici sono incerti su quando usarle. Nonostante i migliori risultati a lungo termine, ci sono preoccupazioni proprio sulla sicurezza a lungo termine e alcuni medici e pazienti rimangono diffidenti nei confronti di questi farmaci. L’argomento è stato oggetto di una sessione alla riunione annuale dell’European Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis (ECTRIMS). Gli argomenti chiave includevano la selezione dei pazienti, i tempi di escalation verso terapie ad alta efficacia e l’uso iniziale di terapie ad alta efficacia.

I – Selezionare i pazienti valutando le caratteristiche basali
Nella prima relazione, Xavier Montalban, direttore del Centro per la sclerosi multipla della Catalogna presso l’ospedale universitario Vall d’Hebron di Barcellona., ha osservato che uno statement dell’aggiornamento delle linee guida ECTRIMS/EAN (European Academy of Neurology) del 2021 affermato che una terapia modificante la malattia (DMT, disease modifying therapy) ad alta efficacia dovrebbe essere considerata all’inizio del decorso della malattia.

Una domanda chiave è se sia possibile utilizzare eventuali caratteristiche basali per selezionare i pazienti e gli studi hanno mostrato una prognosi peggiore in caso di età avanzata, sesso maschile, bassi livelli di vitamina D e condizione di fumatore, tra vari altri fattori.

Montalban ha poi presentato delle analisi di sottogruppi di studi condotti con fingolimod e ozanimod che hanno dimostrato come i farmaci non abbiano funzionato altrettanto bene nei pazienti con fattori prognostici sfavorevoli come un punteggio EDSS (Expanded Disability Status Scale) pari a 4 o superiore e un’età superiore a 40 anni.

Dosi più basse, inoltre, tendono ad avere meno efficacia nei maschi. «Un paziente con cattivi fattori prognostici di base hai bisogno di farmaci ad alta efficacia alla giusta dose, perché una dose più bassa non funzionerà bene. Lo stesso discorso vale per l’età» ha detto Montalban. Peraltro, ha mostrato i risultati di uno studio svolto con ofatumumab e ocrelizumab, entrambi i quali hanno mostrato un’elevata efficacia anche in pazienti con fattori prognostici sfavorevoli.

Tra i pazienti con SM secondariamente progressiva, l’evidenza clinica o MRI di attività infiammatoria è l’unico fattore prognostico sfavorevole che sembra essere un buon predittore di risposta al trattamento.

Montalban ha anche affrontato i tempi di intervento con DMT. Uno studio del suo gruppo ha seguito prospetticamente 1.015 pazienti trattati con DMT. «Ciò che abbiamo osservato è che i pazienti che sono stati trattati con DMT subito dopo il primo attacco sono andati meglio di quelli che sono stati trattati dopo il secondo attacco, e va considerato che i pazienti trattati dopo il primo attacco avevano i peggiori fattori prognostici, quindi il trattamento è stato molto efficace in questo senso» ha detto Montalban.

II – Considerare i fattori prognostici al momento di uno switch
Nella seconda presentazione, Dalia Rotstein, docente di medicina presso l’Università di Toronto, ha discusso su come incorporare i fattori prognostici nello switch, quando cioè si passa un paziente a terapie ad alta efficacia a seguito di nuova attività di malattia durante un’altra terapia.

I pazienti con fattori prognostici favorevoli al basale possono iniziare la terapia immunomodulante. «In sostanza, vogliamo abbinare l’intensità della terapia all’intensità della malattia del paziente» ha detto Rotstein nel suo discorso.

Tuttavia, il decorso della SM è imprevedibile e il primo anno o due di terapia immunomodulatrice può dare ai medici indizi sul decorso a lungo termine della malattia. «Abbiamo bisogno di osservare attentamente l’attività di malattia nel primo anno, ma anche fino a 2 anni di terapia per determinare la necessità di un’escalation precoce» ha aggiunto Rotstein.

Per il passaggio a terapie ad alta efficacia, qualsiasi ricaduta, progressione della disabilità o variazione EDSS di 1 punto o più potrebbe essere preso in considerazione. Gli indicatori di risonanza magnetica sono più controversi, ma anche da una a tre nuove lesioni T2 potrebbero richiedere uno switch.

La catena leggera del neurofilamento sierico (sNFL) è un biomarcatore utile per monitorare l’attività della malattia in quanto si correla bene con la nuova attività di malattia entro l’anno successivo. Può essere monitorato ogni 3-4 mesi e adattato ai fattori clinici e monitorato per i cambiamenti di livello. Un risultato preoccupante può essere seguito con una risonanza magnetica o un esame obiettivo neurologico.

Quando si passa a una terapia ad alta efficacia, è importante somministrare qualsiasi vaccino con largo anticipo per garantire una buona risposta immunitaria. Quando si tratta di un periodo di washout, i medici devono considerare sia il rischio di immunosoppressione che l’attività improvvisa (breakthrough) della malattia.

«In generale, abbiamo osservato che possiamo ridurre al minimo la durata del washout quando interrompiamo la terapia immunomodulatrice iniziale per ridurre il rischio di attività di malattia breakthrough. Dobbiamo prestare particolare attenzione al rischio di attività di rimbalzo con wash-out più lunghi dopo aver interrotto i modulatori del recettore della sfingosina-1 fosfato (S1P) perché l’attività di rimbalzo può essere devastante« ha detto Rotstein.

Uno studio sui tempi delle recidive dopo il wash-out del fingolimod, condotto dal gruppo di Rotstein, ha trovato un segnale forte. «Abbiamo osservato che quando il washout dopo l’interruzione di fingolimod era di 30 giorni o più, c’è un rischio molto alto di recidiva precoce» ha detto.

III – Non escludere l’uso di trattamenti ad alta efficacia fin dall’inizio
Nel terzo intervento, Gavin Giovannoni, docente di neurologia alla Queen Mary University di Londra, ha proposto di “capovolgere la piramide”, cioè di avviare immediatamente i pazienti a terapie ad alta efficacia piuttosto che aspettare fino a quando non progrediscono con altre terapie. Ha paragonato tale decisione a un giocatore d’azzardo, perché i pazienti con SM in terapia meno efficace possono subire conseguenze fisiche irreversibili a lungo termine, nonché conseguenze sociali come disoccupazione a causa di effetti cognitivi.

«Tendiamo sempre a mettere su un grafico i rischi e i benefici di un trattamento specifico e dimentichiamo i rischi della SM non trattata o sottotrattata. Questo va invece tenuto a mente quando si prendono decisioni sulle terapie ad alta efficacia» ha detto Giovannoni.

Circa l’80% dei pazienti in terapia di livello 1, o a bassa efficacia, avrà un’attività breakthrough alla risonanza magnetica entro 4 anni. Salire di livello arriva a circa il 60% di attività breakthrough. Le terapie ad alta efficacia raggiungono un’efficacia di circa l’80% a 6 mesi. «Ponendo tutti i pazienti su terapie ad alta efficacia, si otterrà la maggior parte delle risposte e alcuni di loro avranno un’ottima risposta» ha affermato Giovannoni.

Il neurologo ha presentato alcune prove del mondo reale a sostegno della tesi. Uno studio ha confrontato gli esiti in Svezia e Danimarca, che hanno dati demografici simili. In Danimarca, il 7,6% dei pazienti con SM ha ricevuto inizialmente terapie ad alta efficacia, mentre in Svezia la percentuale era del 34,5%.

I pazienti con SM trattati in Svezia avevano una probabilità inferiore del 29% di progredire verso la disabilità (P = 0,004) e c’erano il 22% in meno di interruzioni di DMT (P< 0,001). A partire da quello studio, la percentuale di pazienti che ricevono terapie ad alta efficacia all’esordio è più vicina al 70%. «Questa è una prova convincente che conviene avviare una terapia ad alta efficacia in fase precoce» ha detto Giovannoni.

Storicamente i trattamenti si sono concentrati sulla riduzione delle recidive e, più recentemente, sull’eliminazione delle evidenze di malattia infiammatoria. Giovannoni ha aggiunto che i medici stanno dando priorità alla perdita di volume cerebrale per migliorare i risultati a lungo termine nella SM, e alcuni stanno studiando la disabilità a lungo termine.

«Sappiamo che la perdita di volume cerebrale nella SM è un segno prognostico sia al basale che al follow-up. Predice scarsi risultati, scarsa cognizione, disoccupazione e scarsa qualità della vita» ha affermato.

Giovannoni ha citato i dati degli studi su alemtuzumab che hanno mostrato una significativa riduzione della perdita di volume cerebrale. «Il tasso è di circa lo 0,2% all’anno, simile a una gamma di valori normali per i controlli di pari età. Le persone che hanno iniziato la terapia con interferoni nello studio hanno perso molto volume cerebrale nei primi 2 anni, e questo è irreversibile».

L’esperto ha sottolineato che gli studi sulla terapia con cellule staminali ematopoietiche hanno mostrato risultati simili in termini di volume cerebrale. «Quindi capovolgere la piramide con le due terapie più efficaci quasi normalizza la perdita di volume cerebrale nelle persone con SM»  ha detto. «Penso davvero si debba dare ai pazienti l’opportunità di capovolgere la piramide e che dovrebbero essere i medici a decide per loro in tal senso» ha sottolineato Giovannoni.

La sessione ha prodotto un messaggio convincente, secondo la moderatrice Patricia Coyle, docente di neurologia e direttrice del MS Comprehensive Care Center di Stony Brook (N.Y.) University. «Penso che i relatori abbiano fornito molti dati a supporto del fatto che la strategia migliore da mettere in atto consista nell’utilizzare terapie ad alta efficacia precocemente per ottenere il massimo rapporto costo/efficacia».

Fonte: ECTRIMS 2022.

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