Quando dipingere è amare: Roberto Ferri in mostra a Bologna. A Palazzo Pallavicini fino al 13 marzo sessanta opere dell’artista tarantino
Un tunnel di corpi classici precipitati in un’apocalisse profana, muscoli in tensione perpetua, capelli lunghi e seni offerti in una luce erotica. È un’unica odissea in 60 opere, 40 oli su tela e 20 disegni, la mostra di Roberto Ferri, a cura di Francesca Bogliolo, che resterà aperta a Palazzo Pallavicini, a Bologna, fino al 13 marzo. “Il pittore è costretto a condividere ciò che vede. Vedere non è semplicemente guardare. Vedere dentro e intorno. Dipingere significa amare ancora”, si legge in una delle sale che accolgono le opere in cui il giovane pittore tarantino si racconta come un pellegrino alla ricerca ostinata di raccontare le viscere dell’umano e la sua continua metamorfosi.
Iconografia sacra e profana in Ferri si uniscono in una miscela misteriosa: croci che trafiggono seni di donna, corpi che perdono gambe e diventano magici animali acquatici, l’ombra di Dio raffigurata nell’uomo che volta le spalle a cavallo di un serpente, il bacio intriso di eros tra Dante e Beatrice, quell’atto mai scritto in Divina Commedia che Ferri ha raffigurato e che a Palazzo Pallavicini si può ammirare in un bozzetto. L’amore, la sessualità si uniscono all’attesa imminente del divino in una perenne allegoria. È ‘l’eros e tanatos’ greco, quella morte che dà spessore alla bellezza dell’umano e la rende irresistibile proprio perché minacciata di continuo, raffigurata dietro a un velo tra luce e ombra, tra la fine e l’inizio di tutto. È un movimento incessante quello a cui si assiste visitando le sale tra le tele di Ferri. Una Cappella sistina che sembra cadere addosso al visitatore e trascinarlo tra figure e personaggi che si ha la sensazione stiano per parlare o camminare da un momento all’altro.
‘Achille’, ‘San Giovanni’, ‘Lux Perpetua’, ‘Oblivion’, ‘Mater Matuta’ fanno rivivere a chi osserva i canoni della pittura antica, e quella Barocca, si vedono i tratti dei grandi maestri da Caravaggio a Ingres, da Gericault a Bouguereau, passando per la tradizione fiamminga. Lo studio attraversa il dipingere per l’artista italiano che da lì ha elaborato una propria poetica dei corpi raffigurati. Una carriera, la sua, che esplode già nel 2007 quando il Vittoriano a Roma gli dedica una monografica, poi nel 2009 dove è protagonista di una personale all’Istituto italiano di cultura a Londra. Il 2013 è l’anno della mostra Noli Foras e nel 2015 tredici tele dell’artista vengono inserite nella scenografia di Sangue del mio sangue di Bellocchio. Nel 2021 arriva la mostra al MEAM di Barcellona e Ferri è ormai maestro di fama di una pittura con cui prova a dare forma, nell’ispirazione plastica della classicità, al potere caotico che l’umano ha dentro, al cambiare, al rinascere. Una prova anche esistenziale per il pittore che nei suoi personaggi si specchia. E un’attesa narrativa e concettuale per chi contempla.
Così quei due corpi avvinti nell’’Età dell’oro’, tela esposta a Palazzo Pallavicini, stanno per salvarsi o per dannarsi insieme: l’uomo cade nelle braccia di lei trafitto da un bacio d’amore mentre una mano sotterranea, nera e legnosa, sembra trascinarlo giù. È un racconto. Perché nella luce e nei corpi Ferri mette il tempo cronologico e l’azione, nei colori una grazia sacra e il colpo di scena: quella dannazione dell’anima che seduce e conquista.