Negli elefanti meno tumori: la chiave è nella proteina p53


Secondo una ricerca, nelle molteplici forme della proteina p53 degli elefanti risiede il meccanismo che rende questi animali più resistenti al cancro

proteina p53

Rispetto agli elefanti, gli esseri umani dovrebbero correre meno rischi di sviluppare un tumore. Un minor numero di cellule dovrebbe infatti significare una più bassa probabilità di mutazioni genetiche e quindi di eventi che predispongono al cancro. L’ipotesi è stata però contraddetta nel 1977 dall’osservazione di Sir Richard Peto, noto medico e docente di statistica ed epidemiologia all’Università di Oxford. Secondo il paradosso di Peto, infatti, l’incidenza tumorale, a livello di specie, non è collegata al numero di cellule di un organismo. A distanza di molti anni, i dati raccolti sulla mortalità per cancro negli elefanti confermano il paradosso e rivelano che questi animali muoiono di tumore circa cinque volte in meno rispetto alla nostra specie.

In un recente studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Biology and Evolution, alcuni ricercatori polacchi, francesi e spagnoli hanno cercato di chiarire il motivo di questa resistenza. In particolare, i ricercatori hanno indagato il funzionamento di p53, una proteina che attiva i meccanismi di riparazione del DNA. Da anni p53 è al centro dell’attenzione della comunità scientifica per il suo coinvolgimento nei processi, oltre che di oncogenesi, di invecchiamento e di risposta alle infezioni.

Gli scienziati hanno deciso di analizzare il genoma del Loxodonta africana, conosciuto come elefante africano, poiché si tratta del più grande animale terrestre vivente ed è anche molto longevo. Confrontando la proteina p53 umana con quella di questi animali, è emerso che nell’elefante sono presenti 20 copie del gene che codifica per p53, ovvero ben 19 in più rispetto agli esseri umani. Il secondo passo è stato quindi verificare se tutte queste copie avessero anche diverse funzioni tra loro. Utilizzando analisi al computer, i ricercatori hanno osservato come le forme tridimensionali delle proteine codificate da tali geni interagiscono tra loro. Si sono focalizzati in particolare sulla relazione tra una proteina regolatrice, detta MDM2, e le diverse configurazioni che può assumere p53, scoprendo delle variazioni di affinità.

Sono proprio queste piccole differenze nella forza delle interazioni a essere associate a un minor rischio per gli elefanti di sviluppare la malattia. Infatti, la presenza di più copie di p53 con funzionalità diverse si ricollega a una maggiore sensibilità delle cellule ai danni e quindi a una migliore resistenza al cancro. È come se le cellule, più reattive nell’identificare gli errori del DNA, fossero in grado di correggere tali errori prima che diano inizio al processo tumorale. La presenza negli esseri umani, invece, di una sola copia di questo gene cruciale renderebbe la nostra specie meno pronta a rispondere a questo tipo di stress cellulare.

Tra i risultati importanti di questo studio vi è la dimostrata utilità di effettuare analisi computerizzate per studiare la proteina p53 negli elefanti. Grazie a queste analisi i ricercatori hanno identificato uno dei meccanismi in grado di rendere un animale così grande e longevo particolarmente resistente ai tumori. Al di là della curiosità scientifica, questo tipo di studi permette di ampliare i confini della ricerca di base. Anche se oggi non conosciamo ancora nel dettaglio come sia regolato l’unico gene p53 umano, la scoperta di diverse forme e strutture nell’elefante può infatti costituire un punto di partenza per lo studio dei loro possibili effetti contro i tumori umani.