Il caso di Asti, dove da quattro casette dell’acqua si è passati ad una sola: il servizio si è rivelato sempre meno ricercato dai consumatori
Quando sono comparse per la prima volta sono state salutate come una svolta ecologista sponsorizzata dalle amministrazioni locali. Le ‘casette dell’acqua’ dovevano offrire ai cittadini la possibilità di rifornirsi di ‘acqua buona’ senza dover ricorre a quella minerale venduta, non sempre a poco prezzo, in bottiglie di plastica destinate comunque a creare problemi di smaltimento. Con il passare del tempo però, il servizio si è rivelato sempre meno ricercato dai consumatori e di conseguenza anche sempre meno remunerativo per le amministra pubbliche o gli enti privati che gestivano il servizio.
Un esempio di questo processo, arriva dal Piemonte: aqd Asti c’erano quattro casette dell’acqua, ma adesso ne è rimasta una sola in funzione: tre dei quattro punti acqua aperti tra il 2016 e il 2017 sono andati via via spegnendosi. «Le casette dell’acqua rappresentano una risorsa importante per la città in termini di sostenibilità ambientale e tutela della salute pubblica – spiega il consigliere di Ambiente Asti, Mario Malandrone – Il problema è anche la mancanza di informazione sui motivi e la durata dei disservizi». Perché, se il servizio non è assolutamente garantito, i consumatori lo abbandonano.
Resta da aggiungere che più in generale la città piemontese poteva vantare in passato una qualità dell’acqua dell’acquedotto tra le migliori d’Italia, secondo un sondaggio di Legambiente di alcuni anni fa. Oggi questo primato è messo in discussione, ma ancor più preoccupa la prospettiva futura traguardata al 2030: «Il problema della gestione del servizio idrico – aggiunge in consigliere Malandrone – arriverà tra sette anni quando l’Agenda europea che imporrà infrastrutture in grado di garantire il diritto all’acqua pubblica. Il Pnrr ha stanziano 4,3 miliardi di euro per il settore idrico e serve un pino concreto per usare bene questi soldi».