Alzheimer: Solanezumab non raggiunge i risultati sperati


Alzheimer: solanezumab, un anticorpo monoclonale che si lega alla forma monomerica o solubile di amiloide-beta, non è migliore del placebo nel rallentare la progressione

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Solanezumab, un anticorpo monoclonale che si lega alla forma monomerica o solubile di amiloide-beta, non è migliore del placebo nel rallentare la progressione della malattia di Alzheimer (AD) preclinica, come mostrano i risultati di uno studio di fase 3, presentati all’Alzheimer’s Association International Conference (AAIC) 2023 ad Amsterdam e contemporaneamente pubblicati online sul “New England Journal of Medicine”.

Sebbene lo studio sia stato negativo, il suo disegno offre importanti indizi per studi futuri, ha detto il ricercatore capo Reisa Sperling, del Center for Alzheimer Research and Treatment, Brigham and Women’s Hospital, Massachusetts General Hospital, Harvard Medical School.

«I risultati indicano che è davvero necessario ridurre la placca amiloide; è molto chiaro ora attraverso gli studi che la diminuzione della placca è la chiave» ha aggiunto.

Primo studio con arruolamento di pazienti asintomatici
I risultati dello studio ‘Anti-Amyloid Treatment in Asymptomatic Alzheimer’s Disease’ (A4), che è il primo studio del suo genere ad aver arruolato pazienti asintomatici, sottolinea anche l’importanza di un intervento precoce, ha aggiunto.

«Siamo in grado di rilevare le persone che hanno amiloide nel cervello mediante PET [tomografia a emissione di positroni], e ora con esami del sangue, al punto che possiamo prevedere chi avrà un declino. Sfortunatamente, questo studio non ha ‘piegato’ quel declino, ma ci dice che è possibile rilevare precocemente l’amiloide e, si spera, un giorno ridurla in modo sicuro e prevenire la demenza» ha detto Sperling.

Lo studio multicentrico in doppio cieco ha incluso 1.147 pazienti (età media, 72 anni; 94% bianchi) che non erano cognitivamente compromessi al basale ma che avevano livelli elevati di amiloide alla PET.

I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a ricevere placebo o solanezumab per 4,5 anni. La dose iniziale del farmaco era di 400 mg somministrati per via endovenosa ogni 4 settimane, ma la dose è stata quadruplicata – a 1.600 mg – a metà dello studio perché un altro studio del farmaco «ha suggerito che i ricercatori stavano sottodosando» ha spiegato Sperling.

I risultati ottenuti in termini di riduzione di placca amiloide
L’endpoint primario di efficacia era la variazione a 4,5 anni nel Preclinical Alzheimer Cognitive Composite (PACC), una scala che misura il declino cognitivo correlato all’amiloide nelle popolazioni non alterate negli studi clinici.

La variazione media rispetto al basale del punteggio PACC in 824 pazienti è stata di -1,43 (IC 95%, da -1,83 a -1,03) nel gruppo solanezumab e di -1,13 (IC 95%, da -1,45 a -0,81) nel gruppo placebo (differenza, -0,30; IC 95%, da -0,82 a 0,22; P = 0,26).

Ciò indicava che non vi era alcuna differenza significativa tra i gruppi e che c’era un declino numericamente maggiore nel gruppo solanezumab.

La mancanza di differenze significative tra i gruppi ha precluso affermazioni di significatività per gli endpoint successivi, compresi i cambiamenti relativi a Cognitive Function Index, Alzheimer’s Disease Cooperative Study Activities of Daily Living Prevention Questionnaire e CDR–Sum of Boxes score.

L’imaging PET ha mostrato che l’amiloide ha continuato ad accumularsi in entrambi i gruppi di studio. L’aumento è stato numericamente maggiore nel gruppo placebo (differenza media nel cambiamento, 7,7 centiloidi; IC 95%, 5,1 – 10,4), ma gli autori hanno rilevato limitazioni per quanto riguarda le inferenze statistiche da questi risultati.

«Sfortunatamente, l’anticorpo non ha ridotto l’amiloide in nessuno al di sotto del basale, e penso che non abbia rallentato sufficientemente gli accumuli» ha detto Sperling.

In un supplemento all’articolo, i ricercatori hanno esaminato i livelli terzili basali di amiloide che prevedevano il declino. «Le persone con il terzile più alto avevano il doppio del tasso di progressione verso il decadimento cognitivo lieve rispetto a quelli nel terzile più basso» ha specificato Sperling.

Sulla tau rilevata alla PET, gli aumenti della tau temporale neocorticale e mediale erano simili nei due gruppi. Ci sono stati anche cambiamenti simili nelle misure di risonanza magnetica volumetrica nell’ippocampo e nella materia grigia totale per i due gruppi.

Quali insegnamenti trarre?
Sperling ritiene che i risultati negativi siano dovuti al tipo di anticorpo monoclonale utilizzato. Solanezumab non si lega alla placca amiloide; piuttosto, si lega a una singola proteina amiloide. Questo è in contrasto con altre terapie anti-amiloide, tra cui lecanemab, che si lega alle protofibrille o alle forme aggregate di amiloide e riduce la placca, e donanemab, che si lega solo alla placca.

Le analisi della dose effettuate dai ricercatori sono state non concludenti. «Ci sono alcune prove che la dose più alta era peggiore, non migliore, della dose più bassa, ma questo non era significativo» ha affermato Sperling. «Questo dato è molto interessante e suggerisce che forse andare troppo dietro alla forma solubile di amiloide non è positivo».

È stato fatto notare che anche le persone che assumono altri farmaci che riducono le forme monomeriche di amiloide, come la beta secretasi e gli inibitori della gamma secretasi, fanno registrare un peggioramento cognitivo transitorio.

Tuttavia, il farmaco sembrava essere sicuro: gli eventi avversi gravi erano simili nei due gruppi per quanto riguarda sia il tipo che l’incidenza.

C’è stato un caso di anomalie di imaging correlate all’amiloide (ARIA) con edema nel gruppo solanezumab mentre ci sono stati due casi nel gruppo placebo. Gli ARIA con microemorragia o emosiderosi si sono verificati nel 29,2% di quelli nel gruppo solanezumab e nel 32,8% di quelli nel gruppo placebo.

Nonostante l’anticorpo utilizzato, Sperling ha elogiato il disegno dello studio. «Abbiamo imparato dal disegno dello studio e ora abbiamo bisogno di una buona molecola» ha detto. Lo studio AHEAD sta studiando lecanemab in persone asintomatiche, alcune di 55 anni, che sono a rischio di AD. Lo studio è stato condotto in più centri.

Il parere dell’Alzheimer’s Association
Secondo Claire Sexton, direttrice senior dei programmi scientifici e di sensibilizzazione dell’Alzheimer’s Association, anche se lo studio è stato negativo, i risultati «contribuiranno alla nostra comprensione dell’Alzheimer e ci aiuteranno a condurre meglio studi su persone nelle fasi presintomatiche della malattia».

Questo «studio di prevenzione secondaria ben realizzato e condotto» ha implementato diverse pratiche importanti, tra cui un focus sul reclutamento di una popolazione diversificata e rappresentativa, ha osservato Sexton.

Fonte:
Sperling RA, Donohue MC, Raman R, et al. Trial of Solanezumab in Preclinical Alzheimer’s Disease. N Engl J Med. 2023 Jul 17. doi: 10.1056/NEJMoa2305032. [Epub ahead of print] leggi