Trasfusione a Testimone di Geova contro la sua volontà, il Tribunale le dà ragione: risarcimento da 38mila euro e la sentenza fa scuola
“Il Tribunale di Modena si dimostra ancora una volta all’avanguardia nella difesa del diritto del paziente attraverso lo strumento dell’amministratore di sostegno. Per la prima volta (con la sentenza del 31 agosto 2023, a firma della giudice Giulia Lucchi) è stato riconosciuto il diritto al risarcimento economico a favore del paziente Testimone di Geova trasfuso coattivamente mentre si trovava in uno stato di incoscienza, e anche a favore del suo amministratore di sostegno che era stato ignorato dai medici. La sentenza è rilevante per regolare tutti i casi simili sorti prima dell’entrata in vigore della legge 219 del 2017 che ha introdotto in Italia la figura del fiduciario e le disposizioni anticipate di trattamento“. Lo fa sapere in un comunicato stampa la congregazione dei Testimoni di Geova commentando una sentenza che ‘fa scuola’ sul consenso informato e che ha risarcito con 30.000 euro il danno per la sofferenza patita dalla paziente nei 37 giorni che è rimasta in vita e con 8.000 euro l’amministratore per il dolore di non essere stato ascoltato visto il legame con la paziente.
“È una conclusione- ha dichiarato il professor Paolo Cendon, redattore della legge sull’amministratore di sostegno- che merita senz’altro di essere approvata. Il giudice ha riconosciuto alla paziente il danno morale per la sofferenza, il patimento interiore in quanto è stata violata la sua libertà, la sua dignità, il bastione della sua autodeterminazione. La novità più significativa, risulta quella del riconoscimento del danno dell’amministratore di sostegno per il disagio e l’umiliazione subiti per essere stato ignorato dai medici”.
IL CASO
Nel 2015, una donna affetta da sclerosi multipla in fase avanzata veniva ricoverata d’urgenza presso il nosocomio di Modena in grave stato di shock emorragico. La donna Testimone di Geova rifiutava per motivi religiosi di essere sottoposta a trasfusioni di sangue, sia direttamente sia tramite il marito che era stato nominato dal Giudice Tutelare quale suo amministratore di sostegno per prestare il consenso, o il rifiuto, alle cure e ai trattamenti sanitari qualora la donna non fosse stata in grado di esprimersi. I medici, ritenendo che le trasfusioni di sangue fossero indispensabili, si erano rivolti al Tribunale che aveva però negato l’autorizzazione, ricordando ai medici che la volontà della paziente doveva essere rispettata. Ciononostante, i medici sottoponevano coattivamente la donna a ben quattro trattamenti trasfusionali che non ne impedivano comunque il decesso avvenuto appena un mese dopo. Il marito aveva dunque avviato una causa di risarcimento per le violazioni subite, a cui i giudici hanno dato infine ragione riconoscendo a suo favore il diritto a un risarcimento economico.
Il Tribunale- con questa sentenza- ha ribadito che il paziente ha “il pieno diritto di rifiutare interventi terapeutici indesiderati o contrari alle sue convinzioni religiose, sia direttamente sia per il tramite del marito, suo amministratore di sostegno”. Sulla posizione dei medici, anche quando questi ritengano che la trasfusione di sangue sia necessaria, ha stabilito che “non possono spingersi fino a travalicare diritti inviolabili di ogni essere umano e costituzionalmente protetti (articoli 2, 13 e 32 della Costituzione), quali la libertà personale, la dignità, la solidarietà che impongono una soglia di rispetto invalicabile da parte di chiunque e di fronte ai quali devono arrestarsi, non potendo fondare la propria legittimazione (o esigibilità) su metodi caratterizzati da violenza fisica o morale che l’ordinamento giuridico e la società civile non ammettono”.
Vi si legge ancora che “a fronte di un dissenso così marcatamente manifestato hanno posto in essere un comportamento palesemente inadeguato e brutale” perché “hanno negato, alla stessa, una dignità nel processo del morire, imponendole decisioni terapeutiche contrarie alle sue convinzioni religiose, così annientando la sua identità”. Quanto invece alla posizione dell’amministratore di sostegno, il giudice ha rilevato che “lo stesso è stato privato della possibilità di accompagnare dignitosamente la moglie verso la fine della sua vita. Considerato il legame che li univa non solo nella vita ma altresì nella condivisione della fede religiosa, lo stato d’animo e la sofferenza che una tale privazione deve avere determinato sono comprensibili e immaginabili e non richiedono ulteriori indagini e commenti“.