Sono oltre 100 le diverse patologie fibrosanti del polmone che riconoscono una causa in un’esposizione lavorativa o ambientale
Sono oltre 100 le diverse patologie interstiziali che riconoscono una causa in un’esposizione lavorativa o ambientale, un argomento di grande attualità per via del continuo aumento degli inquinanti aerei. Molte delle esposizioni che sono oggetto di studio non sono ancora del tutto note, quindi anche le patologie correlate a questi nuovi fattori di esposizione costituiscono un ampio ambito di ricerca.
Lo stesso per le pneumoconiosi, ovvero le interstiziopatie che riconoscono una causa professionale e che coinvolgono la Società Italiana di Pneumologia (SIP) anche per motivi legati alla medicina del lavoro, dato che alcune di queste esposizioni ancora oggi non sono riconosciute come malattia professionale.
Quando si parla di esposizioni in genere si pensa ad asma e Bpco, ma esistono anche delle interstiziopatie che sono legate all’esposizione; quindi, in fase di anamnesi, è sempre importante considerare che un fattore esogeno può indurre nel polmone non soltanto una malattia ostruttiva ma anche una malattia restrittiva.
I fattori ambientali oltre la genetica: l’esposoma
Fino a pochi anni fa si riteneva che lo studio del genoma avrebbe dato ai medici la risposta alla suscettibilità alle malattie e si pensava che, se fossimo stati in grado di studiare tutti i geni che sono presenti nel nostro DNA, avremmo capito tutto sul perché alcuni pazienti sviluppano delle malattie. In realtà, purtroppo, questa sfida non ha portato il risultato sperato ed è ben noto che, per la maggior parte delle patologie, non è sufficiente una spiegazione genetica ma è necessaria l’esposizione ad un fattore aggiuntivo legato all’ambiente.
Negli ultimi anni questo ha portato a una sfida, l’esposoma, ovvero a definire quali sono i fattori ambientali che condizionano fin dalla vita intrauterina la suscettibilità di un individuo allo sviluppo di una malattia. Si è capito che, dalla gravidanza all’età adulta, ciò che la persona assume come esposizione o come contatto con l’ambiente determinerà la possibilità di sviluppare o meno certe patologie. In particolar modo l’esposoma si è occupato di definire se l’esposizione fin dall’infanzia ad una certa concentrazione di agenti inquinanti ambientali, come l’ozono, il particellato e i metalli pesanti, porti a sviluppare o meno la malattia interstiziale.
Molteplici patologie interstiziali da esposizione ambientale e professionale
I fattori che determinano la suscettibilità alle malattie polmonari in questo momento rappresentano un importante e crescente filone di ricerca. Oltre all’inquinamento, è ben noto come l’esposizione al fumo di sigaretta possa favorire in un soggetto geneticamente predisposto lo sviluppo di una determinata malattia. Il fumo scatena una serie di eventi a livello di meccanismi patogenetici che sottendono le intestiziopatie, intesi come squilibrio tra proteasi e antiproteasi, ossidanti e antiossidanti, intervento sulla senescenza e rimodellamento del polmone, favorito anche da alterazioni di altri meccanismi immunitari come un’alterazione del microbioma. Nel polmone questo stato infiammatorio stimola processi riparativi che avvengono in modo aberrante e portano a vari tipi di interstiziopatie.
Tra gli antigeni in ambito ambientale e professionale, le muffe hanno un ruolo cruciale nello sviluppo di polmoniti. La polmonite da ipersensibilità viene facilmente associata all’esposizione ad aspergillo, candida o penicillum, ma a volte l’esposizione a muffe, funghi o micobatteri favorisce la suscettibilità anche ad altre patologie interstiziali del polmone.
«È risaputo che l’esposizione a proteine animali favorisce lo sviluppo della polmonite da ipersensibilità, ma quando si intervista il paziente è importante non limitarsi a domandare se fa il contadino, se è esposto al fumo alla muffa del fieno e se ha contatti con gli escrementi degli animali» ha spiegato la prof.ssa Elena Bargagli (professore ordinario di Malattie dell’Apparato Respiratorio presso il Dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche e neuroscienze dell’Università degli Studi di Siena) «È anche utile chiedere se lavora nell’ambito di un’industria chimica perché, per esempio, la lavorazione delle vernici e l’elaborazione dei gas e delle bombolette spray sembra favorire un tipo di danno polmonare interstiziale comparabile con una polmonite da ipersensibilità».
Nel caso della sarcoidosi, il ruolo dell’agente causale sconosciuto è determinante nello sviluppo del granuloma. Affinché si sviluppi un granuloma, è necessario un antigene sconosciuto che attiva in maniera incontrollata la proliferazione dei macrofagi e dei linfociti e porta a una alterazione caratteristica. Numerosi studi, nel corsi degli anni, hanno documentato come alcune infezioni favoriscano la formazione del granuloma, come nel caso di alcuni antigeni dei microbatteriche sono ben evidenti all’interno del granuloma della sarcoidosi. Vecchi studi epidemiologici hanno riportato che i pazienti che vivevano in ambienti con umidità elevata, come abitazioni che presentavano muffe sulle pareti, erano a maggior rischio di sviluppo della malattia.
Altre esposizioni che aumentano la suscettibilità alla malattia riguardano alcuni farmaci e gli inquinanti ambientali, oppure alcune patologie come l’interstiziopatia favoriscono la riacutizzazione. In un fenotipo particolare di sarcoidosi, sembra che alcuni tipi di esposizione favoriscano la forma acuta mentre altri inducono la sarcoidosi subacuta o cronica.
Alcuni studi hanno focalizzato l’attenzione sull’asse tra il microbiota intestinale e quello polmonare, che riguarda le interstiziopatie quando probabilmente dall’esterno vi sono dei trigger favorenti come la microaspirazione o fenomeni di infezione, oppure l’esposizione a particelle organiche o inorganiche in grado di alterare il microbiota respiratorio e polmonare che sembrerebbe favorire un danno polmonare attraverso una produzione aberrante e interstiziopatia.
Non sempre facile individuare l’agente causale nelle esposizioni lavorative
In base al tipo di esposizione lavorativa di un paziente è possibile aspettarsi un pattern radiologico o anatomo-patologico caratteristico. L’esposizione a determinate sostanze organiche, come berillio, alluminio, titanio e zirconio, induce reazioni granulomatose con un quadro radiologico paragonabile a quello di una sarcoidosi. Invece l’esposizione all’amianto, oltre alle classiche placche alla TAC, può indurre quadri di fibrosi polmonare con un pattern patologico che può essere simile a quello di una usual interstitial pneumonitis.
Esposizioni molto rare riguardano sostanze che contengono materiale oleoso, che si deposita sui macrofagi e favorisce la polmonite lipoidea. La produzioni di spray e vernici può favorire quadri di bronchiolite obliterante. Le forme non specifiche sono invece dovute soprattutto all’esposizione a particelle organiche, come quelle legate agli escrementi animali.
La gestione delle intestiziopatie causate da esposizione ambientale o professionale segue fondamentalmente gli stessi protocolli di diagnosi e terapia delle interstiziopatie da causa non nota. La principale differenza è costituita dal fatto che, nel momento in cui viene identificato l’agente causale, questo deve essere allontanato per evitare che la malattia progredisca. Per quanto intuitivo, questo passaggio è reso complesso dalla mancanza di una procedura validata che consenta, attraverso le giuste domande al paziente, di identificare con sicurezza l’esposizione ambientale o professionale che ha provocato la malattia interstiziale, portando a volte a classificare come idiopatiche le forme per le quali il medico non è stato in grado di identificare l’antigene.
Fondamentale un’anamnesi professionale ed espositiva adeguata
Una delle ragioni è legata anche dai limiti della diagnosi di laboratorio per queste patologie, dato che la ricerca delle precipitine, IgG specifiche per particelle organiche, molto spesso può dare esito negativo nei soggetti con polmonite da ipersensibilità. Non sono disponibili dei marcatori dotati di sensibilità e specificità adeguate per poter affermare con certezza se un paziente è chiaramente affetto da una forma di interstiziopatia secondaria e non da una forma idiopatica. L’unica possibilità di capire quale sia l’agente causale è attraverso un’indagine basata su una anamnesi accurata.
«Inoltre non è ancora chiaro se sia corretto usare le precipitine secondo i modelli e gli schemi utilizzati in passato» ha osservato la relatrice. «Il pannello di laboratorio è lo stesso da 20 anni e valuta l’aspergillo, la candida e il penicillum, ma quando il paziente racconta il tipo di esposizione, come nel caso di chi lavora nella stagionatura dei formaggi o si occupa della produzione della birra, molto spesso il dosaggio delle precipitine diventa una misura anacronistica che non ha niente a che fare con l’esposizione di quel paziente specifico impegnato in quella specifica professione».
Sarebbe necessario produrre kit per l’identificazione dell’antigene basati proprio sulla realtà professionale che vive quel paziente. Infatti nei laboratori di terzo livello si va anche al domicilio del paziente per prendere dei tamponi da analizzare per stabilire se un determinato paziente ha una forma specifica dovuta a un particolare antigene.
Resta il fatto che non va mai dimenticato di fare un’anamnesi professionale ed espositiva adeguata in tutti i pazienti che hanno un’interstiziopatia. In caso di esposizione ambientale la rimozione dell’antigene è uno degli approcci più efficaci per impedire lo sviluppo della malattia interstiziale, ha concluso.
Referenze
Bargagli E. Fattori di rischio ambientali e professionali nella patogenesi delle patologie fibrosanti del polmone. European Respiratory Society (ERS). International Congress 2023. Milan, Italy, 9-13 September.