Troppi tecnicismi e burocrazia, manca la “centralità” del malato: due terzi dei pazienti sono insoddisfatti del dialogo con lo specialista
Oltre 400 storie di pazienti con malattie croniche, analizzate passo passo, per individuare le criticità emerse nelle relazioni medico-paziente. L’indagine – condotta da Helaglobe in collaborazione con diverse associazioni di pazienti aderenti al progetto “Insieme per” – ha raccolto 414 narrazioni di persone con malattie croniche, in prevalenza infiammatorie o malattie genetiche rare, e dei loro caregiver, e rivela un percepito insoddisfacente della relazione con il medico, in particolare lo specialista, nel momento della prima comunicazione (la diagnosi) della malattia e nei successivi anni di terapia che si prolunga, in media, per poco meno di una decina d’anni. Circa un terzo dei pazienti ha una proiezione positiva sulla propria malattia, il restante si ‘cronicizza’ in modo pessimista sulla propria condizione. Complice anche le modalità di comunicazione del medico, spesso scarsamente empatico, motivante, coinvolgente. Il dialogo, più incentrato sulla cura della malattia, quali ad esempio i controlli da effettuarsi nel tempo o gli aspetti più burocratici della stessa, trascura invece parole e aspetti del lato umano della malattia, legati alla cura della persona, al suo coinvolgimento motivazionale a fronteggiare, reagire, resistere, gestire la propria condizione clinica, invece fattori determinanti. Il dialogo, dunque, capace di guarire è stato il tema al centro del Seminario Istituzionale “Dall’ascolto al dialogo: la relazione medico-paziente”.
“L’umanizzazione della medicina – dichiara la sen. Zambito – ha come punto di forza e di fulcro il concetto del ‘paziente al centro’, che tuttavia, sembrerebbe oggi vacillare. Invece, le parole del medico hanno anche la potenziale capacità di agire sul vissuto di malattia: influenzandone il presente, rielaborandone il passato, orientandolo al futuro, impostandone la nuova relazione con gli altri. La relazione positiva con il medico è un fattore di coping essenziale anche per il caregiver (genitore, figlio/a, marito/moglie, fratello/sorella), da cui poter trarre equilibrio e supporto per la convivenza con una situazione di patologia cronica, debilitante e grave, che spesso vive con difficoltà”.
Dall’indagine oltre il 60% dei pazienti parla della propria malattia in termini di «illness» e non di «disease», raccontata non come mera alterazione della struttura e della funzionalità degli organi, bensì come esperienza che impatta sulla qualità della vita in termini di relazioni, cambio di abitudini, emozioni, rottura con il passato e visione del futuro. “È importante che il paziente comprenda la sua malattia e arrivi preparato e in grado di formulare domande appropriate al medico, in modo da ottimizzare il tempo della relazione e della visita, spiega Alessandro Boni, Segretario dell’Associazione Palinuro –. Noi associazioni e federazioni di pazienti possiamo porci come facilitatori di questo percorso di consapevolezza del paziente, di conoscenza della propria malattia e di un minimo alfabeto medico. Siamo persone, non contenitori della nostra malattia.
Solo la minoranza dei pazienti, all’incirca un terzo mostra una relazione positiva con la propria malattia, a fronte del restante per lo più ‘fermi’, se non regressi, sulla propria condizione di salute: un approccio e visione peggiorativi che hanno radice, spesso, nel vissuto della relazione con il medico specialista. “La comunicazione in Oncologia è una questione complessa – afferma Giordano Beretta, Presidente Fondazione AIOM –. Soprattutto oggi, in tempi di terapie innovative, è fondamentale costruire una solida relazione tra medici e pazienti, contraddistinta da lealtà e fiducia. È giunto il tempo di gettare le basi per una nuova alleanza terapeutica e per noi è importante che un ulteriore passo sia stato fatto oggi, in occasione di questo seminario, proprio nel mese per la prevenzione del tumore.”
“I dati emersi dall’indagine invitano, pertanto, a una riflessione di sistema, della sanità, delle università, delle società scientifiche, anche delle associazioni pazienti – conclude Davide Cafiero, direttore di Helaglobe che ha curato l’indagine –. Questo per avviare e/o continuare un movimento culturale di revisione e approfondimento dei PDTA delle malattie croniche nonché dei percorsi formativi degli operatori sanitari ad ogni livello, partendo dalle università, affinché si passi da una presa in carico della malattia a una concreta presa in carico della persona come individuo”.