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Diabete di tipo 1: verso allargamento dell’uso di teplizumab

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Diabete di tipo 1: l’uso di teplizumab potrebbe essere allargato un gruppo più ampio di pazienti con diagnosi recente secondo un nuovo studio

Come dimostrato dallo studio randomizzato PROTECT pubblicato sul New England Journal of Medicine (NEJM), il trattamento con l’anticorpo monoclonale anti-CD3 teplizumab non solo può ritardare la progressione della malattia preclinica ma può anche aiutare a preservare le cellule beta se somministrato subito dopo una diagnosi di diabete di tipo 1.

Teplizumab è stato approvato nel 2022 dalla Fda per il trattamento degli adulti e dei bambini con almeno 8 anni di età affetti da diabete di tipo 1 in stadio 2 (preclinico) che desiderano ritardare la perdita irreversibile della capacità delle cellule beta produttrici di insulina di mantenere il normale controllo glicemico e quindi posticipare l’insorgenza del diabete di stadio 3 (clinico).

Si ritiene che il farmaco agisca legandosi agli antigeni di superficie CD3 sulla membrana dei linfociti T che attaccano le cellule beta produttrici di insulina, probabilmente inducendo l’attività regolatoria delle cellule T per aumentare la tolleranza immunitaria.

La progressione del diabete di tipo 1 prevede tre fasi:

Lo studio PROTECT con teplizumab dopo la diagnosi
A differenza del singolo ciclo di 14 giorni di teplizumab utilizzato per ritardare la progressione della malattia preclinica, nello studio di fase III PROTECT, randomizzato e controllato con placebo, i 328 pazienti coinvolti (8-17 anni di età) sono stati assegnati in modo casuale a ricevere teplizumab o placebo per due cicli di 12 giorni a distanza di 26 settimane l’uno dall’altro. Il farmaco è stato somministrato precocemente in regime ospedaliero o ambulatoriale entro 6 settimane dalla diagnosi di diabete di tipo 1.

Nello studio, due cicli di trattamento di 12 giorni hanno comportato una riduzione significativa del 59,3% della perdita della funzione delle cellule beta (endpoint primario) come indicato da livelli più elevati di peptide C (dopo un test di tolleranza dopo 4 ore da un pasto misto) alla settimana 78 rispetto al placebo (differenza media dei minimi quadrati 0,13 pmol/ml, P<0,001). Quasi tutti i soggetti trattati con teplizumab (94,9%) hanno mantenuto un livello clinicamente significativo del picco del peptide C di almeno 0,2 pmol/ml rispetto al 79,2% di quelli sottoposti a placebo (P<0,001).

Tuttavia il farmaco non ha ridotto il fabbisogno di dose di insulina, non ha migliorato il controllo del glucosio o ridotto gli eventi ipoglicemici (endpoint secondari chiave), hanno scritto l’autore senior Kevan Herold della Yale University di New Haven, Connecticut, e colleghi. I risultati dello studio sono stati anche presentati al congresso della International Society for Pediatric and Adolescent Diabetes (ISPAD). Sono state osservate tendenze numeriche a favore di teplizumab nei parametri clinici rilevanti. In media, i soggetti in trattamento attivo hanno richiesto un numero di unità di insulina inferiore e hanno avuto un tempo di permanenza nell’intervallo glicemico corretto numericamente superiore rispetto a quanti hanno assunto il placebo.

Gli eventi avversi si sono verificati principalmente al momento della somministrazione del farmaco e, coerentemente con quanto rilevato nel trial precedente, i più frequenti sono stati cefalea, sintomi gastrointestinali, rash, linfopenia e lieve sindrome da rilascio di citochine.

Gli effetti collaterali che hanno portato all’interruzione del trattamento si sono verificati nel 6,9% del gruppo teplizumab e nel 2,7% del gruppo placebo. Gli unici eventi gravi sono stati due casi di sindrome da rilascio di citochine con teplizumab che si sono risolti entro 7 giorni e un caso di batteriemia correlata al dispositivo di somministrazione nel gruppo placebo. Una grave ipoglicemia si è verificata nel 13,4% dei pazienti in trattamento attivo e nel 16,2% del gruppo placebo.

«Il diabete di tipo 1 è una malattia cronica, di origine autoimmune, causata dalla distruzione delle cellule beta produttrici di insulina e, pertanto, la conservazione delle cellule beta rimane un’esigenza essenziale ancora non soddisfatta per tutti i pazienti affetti da diabete» ha detto Herold. «Questi nuovi risultati sono basati sui dati di numerosi studi condotti in diverse fasi del processo patologico e vanno a sostenere ulteriormente il potenziale di teplizumab nel modulare la progressione del diabete di tipo 1».

«Gli effetti a lungo termine di teplizumab non sembrano comportare un’immunosoppressione cronica» hanno fatto presente i ricercatori, sottolineando la risoluzione della riattivazione del virus Epstein-Barr senza trattamento antivirale in tutti gli otto casi e l’assenza di un tasso più elevato di infezione da Covid-19 con teplizumab.

«Anche se la popolazione dei pazienti era simile a quella di altri studi sul diabete di tipo 1, la maggior parte dei partecipanti era bianca e quindi non rappresentativa delle persone che riferiscono una malattia di nuova insorgenza nella popolazione generale» hanno rilevato gli autori. «Inoltre lo studio ha mostrato tassi più bassi di chetoacidosi diabetica rispetto a quelli osservati in altri studi su pazienti con diabete di nuova insorgenza».

L’uso di teplizumab dopo la diagnosi amplierebbe la platea dei beneficiari
I casi di diabete di tipo 1 che vengono individuati nel momento corretto del processo patologico così che la funzione delle cellule beta possa essere preservata sono relativamente pochi, circa un centinaio di candidati a livello nazionale, ha osservato Domenico Accili, responsabile della Divisione di Endocrinologia presso la Columbia University di New York City. La possibilità invece di trattare i pazienti dopo la diagnosi amplierà sostanzialmente il numero di candidati.

«Tuttavia il diabete di nuova diagnosi viene spesso gestito a livello di cure primarie piuttosto che dagli specialisti, che potrebbero o meno avere le risorse, le conoscenze e la capacità di chiedere il parere di esperti o una consulenza specialistica» ha affermato Accili. «Anche se i pazienti ricevono teplizumab per le prime 2 settimane, poi tornano a casa e non avranno facilmente lo stretto controllo e l’attento monitoraggio che ricevono negli studi. Perché, se il controllo non è perfetto durante il primo anno, i benefici per le cellule beta residue potrebbero non essere così marcati come nello studio, nel quale peraltro non sono così sostanziali. A queste domande potrebbe rispondere uno studio di real-world».

Referenze

Ramos EL et al. Teplizumab and β-Cell Function in Newly Diagnosed Type 1 Diabetes. N Engl J Med 2023.

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